La cucina
La cucina
Nella casa rurale tradizionale, la cucina non era solo la stanza dedicata alla preparazione dei cibi, era anche il principale luogo di ritrovo per i membri del nucleo famigliare e il luogo in cui veniva accolto chi giungeva in visita. La cucina era il solo ambiente sempre riscaldato della casa rurale. In cucina, inoltre, specie nella stagione fredda, si svolgevano lavori domestici come, ad esempio, il filato e il cucito. L’accesso alla dimora rustica avveniva attraverso la cucina sulla quale si apriva la porta del corridoio che portava alle stanze, oppure la porta dell’unica stanza da letto, o delle stanze da letto. Lo spazio occupato dalla cucina era piuttosto ampio, comunque, più ampio di quello dedicato alle altre stanze. Al centro della cucina, il tavolo attorno al quale si riuniva la famiglia per prendere i pasti. Oltre al tavolo, pochi mobili: una piattaia; un asse di legno munito di ganci – detto “‘ppiccarame” – cui venivano appesi pentole e tegami di rame; una credenza (spesso sostituita da una nicchia o un vano nella parete fornito di tavole); la madia (arca) usata per la preparazione del pane e per riporvelo; sedie e panche. L’acquaio tradizionale era ricavato da un blocco di pietra scavato a scalpello poggiato su due supporti in muratura. Prima dell’introduzione della rete idrica, accanto all’acquaio vi era il deposito d’acqua: la botticella di legno (cupélla) o il tino costruito con doghe (lu bigunciu). L’acqua da bere era contenuta nella “conca” di rame. Dal tetto della cucina pendevano “le stangarèlle”: lunghi bastoni appesi al soffitto mediante anelli di ferro, ai quali si appendevano pannocchie di granturco, serti di aglio e cipolle, derrate alimentari (ad esempio il lardo da usare in cucina, o il pesce affumicato). Alle pareti erano appesi i vari setacci da usare per la preparazione del pane e della pasta.
Il focolare. Il cuore della cucina rurale e dell’intera dimora era il focolare. Prima dell’introduzione delle cucine a carbonella, i cibi venivano cotti sul fuoco del focolare. Il focolare, inoltre, fungeva da naturale centro d’aggregazione per i componenti della famiglia e anche per i vicini che, alla sera, solevano andare in visita e sostare attorno al fuoco. Per quanto riguarda la posizione, il focolare leonessano non è mai posto al centro della stanza, ma addossato a una parete della cucina. Il piano del focolare (aròla, dal lat. areola) si alza sul pavimento per circa 20 o 30 cm.. I focolari più antichi erano più grandi e profondi dei più recenti che, più che per cucinare, servono per riscaldare. La cappa, in muratura, era munita sul davanti di una mensola di legno poggiata sul trave frontale del focolare sulla quale veniva posta la lampada e altri oggetti.
Il focolare come centro d’aggregazione. «Il focolare domestico era tenuto sempre acceso durante il giorno a iniziare dalle primissime ore del mattino poiché le donne usavano cucinare sulla fiamma del camino dove, appeso alla catena, vi era sempre “lu callaru” di rame stagnato: il capiente caldaio rifornito continuamente d’acqua, mentre sui tripodi di ferro si poggiavano i tegami per cucinare. Di notte le braci venivano ammucchiate con la paletta di ferro e ricoperte d’una coltre di cenere, azione fatta oggetto di speciali precauzioni rituali. Semisepolta nella cenere veniva lasciata, durante la notte, la pignatta di terracotta fornita di manico (la pigna) in cui si facevano ammollare ceci, o fagioli secchi per la minestra del giorno seguente: Accanto al fuoco, di giorno, sostavano i più vecchi della famiglia occupati in piccole faccende e lavori minuti, oppure le donne addette alla filatura della lana, o impegnate a collaborare nella preparazione dei pasti.
Mentre nello spazio comune del vissuto quotidiano vi erano spazi riservati agli uomini e altri alle donne, il focolare per sua natura favoriva la socializzazione indipendentemente dal sesso e dall’età: questa, dal punto di vista culturale, era la sua più importante funzione. Dopo cena, infatti, il camino acquisiva una diversa dignità: diventava il centro attorno al quale si svolgeva la vita famigliare ed avveniva, in modo speciale, la trasmissione della cultura tradizionale. Attorno al fuoco si recitava il rosario serale assieme alle preghiere corrispondenti alle feste più sentite e importanti del calendario liturgico e della devozione famigliare.
Attorno al fuoco si discutevano questioni di famiglia, problemi riguardanti il lavoro, si prendevano assieme le decisioni più importanti. Attorno al fuoco gli anziani entravano in contatto coi giovani, un contatto assai più diretto di quello quotidiano che avveniva sul lavoro, o nei brevi momenti dei frugali pasti comunitari. Attraverso la parola degli anziani, il patrimonio tradizionale della cultura rurale veniva riproposto, riaffermato, veicolato ai giovani. In una parola, avveniva quel necessario processo di “tramandamento” che è proprio della tradizione quand’essa è ancora viva e operante. E la tradizione forgiava nei giovani la coscienza dell’identità culturale assicurando alla comunità rurale la persistenza nel tempo di tale identità. Un’identità profondamente religiosa i cui punti ideali di riferimento erano Cristo, la Vergine, i santi, gli eroi della storia patria e quelli delle storie attinte al repertorio della grande poesia di Dante, Ariosto, Tasso che veniva appresa a memoria. Sottratti alle rarefatte regioni della grande creazione poetica e al dominio colto dei letterati, pur non avendo perso nulla della loro nobiltà, gli antichi cavalieri erano divenuti eroi del popolo ed erano da questo amati, sognati, additati ad esempi di vita. Assieme ad essi erano entrati a far parte della tradizione popolare anche i grandi eroi della storia più antica assieme a personaggi d’una storia molto più recenti: i briganti. Le narrazioni iniziavano dopo la recita del rosario, mentre la cucina era immersa nella penombra rischiarata dai bagliori del fuoco.
Dopo cena ogni lume era spento per ridurre il consumo d’olio o di sego. Spesso si risparmiava anche la legna perché due o più famiglie si riunivano a turno presso uno stesso focolare. Quando ci si recava in casa d’altri per passare la serata accanto al fuoco si usava una parafrasi: “ce jimu a ssede’: ci andiamo a sedere” e l’incontro si chiamava “la seduta”. Ai convenuti si usava offrire piccole pere selvatiche (pera pazze) conservate in un tino con acqua che, col tempo, diventava acidula. Oppure si offrivano loro mele selvatiche (schianchi) lasciate maturare a lungo sotto la paglia. Ma soprattutto si metteva in comune il dono sacro del fuoco, simbolo d’ospitalità, solidarietà e della famiglia». (Polia-Chávez 2002: 35-37).
In omaggio al valore sacrale della fiamma del focolare domestico, si evitava di sputare nel fuoco o di gettarvi immondizie o lordure. Si gettava, invece, nel fuoco l’acqua usata nei riti di lecanomanzia effettuati per diagnosticare la presenza dell’invidia e del malocchio e neutralizzarne gli effetti perniciosi. In questo caso, il potere purificatore del fuoco avrebbe svolto una funzione benefica.
Anelli con gancio
Oltre alle grandi catene, catene più piccole, composte da pochi anelli e un gancio, agganciate agli anelli della catena da fuoco servivano a permettere di appendere sul fuoco recipienti più piccoli. L’esemplare qui raffigurato, proveniente da Ocre (Leonessa) appartiene alla nostra collezione museale (n. i. 166).
Anelli con gancio da camino – catenella pe’ lu fócu (n. i. 176)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: ferro
descrizione: composta da tre anelli e un gancio, questa piccola catena veniva appesa alle ancore dei ganci della catena da camino, o direttamente al ferro passante per la cappa per servire da catena supplementare per recipienti di ridotta capienza
misure: h. tot. cm. 25,5; anelli: diam. cm. 8 spess. mm. 4; gancio: h. cm. 8,5
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: rinvenimento
anno: 2011
Secondo un’antica tradizione, forse d’origine abruzzese, nell’imminenza del temporale alcuni usavano spiccare dal camino la catena da fuoco e gettarla fuori sull’aia. A volte, oltre alla catena, si gettavano sull’aia anche le molle e la paletta. Questa tradizione, fin verso la metà degli anni ’50 del Novecento, era diffusa anche nella vicina Valnerina.
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