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Macine
Macine casalinghe (macinélle).
Le macine manuali per il farro sono composte di due parti: la parte inferiore, fissa, e la superiore girevole. La parte inferiore, al centro, presenta un foro destinato ad alloggiare il perno di ferro attorno al quale avviene la rotazione della parte superiore. Il perno, in genere, è fissato alla macina mediante una colata di piombo. La macina superiore presenta anch’essa un foro centrale attraverso il quale si versava il grano, o il farro da macinare. La faccia interna della parte girevole della macina è munita di una staffa di ferro, forata al centro, destinata ad alloggiare il perno che sporge dalla parte fissa della macina. La staffa è fissata anch’essa mediante piombo. Dalla faccia esterna sporge il manico formato da un tondino di ferro che si eleva per circa 20 cm., a volte rivestito di tessuto in modo da agevolare la presa della mano. La pietra usata per le macinélle, in genere, è un conglomerato presente in natura sull’altopiano il quale, per via delle numerose intrusioni calcaree, presenta asperità che lo rendono adatto a servire da pietra da mola. Nelle macine più semplici, la parte fissa non presenta un bordo rilevato mentre, in altre, è presente un bordo all’interno del quale gira la parte superiore. In questo caso, il bordo presenta un’apertura che permette alla farina di cadere dalla macina sul piano di lavoro. Con questo tipo di macina, usata soprattutto per il farro, si ottenevano farine piuttosto grossolane destinate alla preparazione di zuppe. Un duplice passaggio nella macinélla permetteva di ottenere una farina più fina da usare per le polente.
Macina a mano da farro – macinélla (n. i. 88)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: macine di pietra e manico di ferro
descrizione: nella parte inferiore della macina, in un piolo di legno infilato a tenuta, era infisso il perno attorno al quale ruotava la macina superiore. Un tondino di ferro, assicurato alla macina mediante piombo colato, permetteva di azionarla
misure: h. tot. cm. 15,4; diam. cm. 40; foro interno: diam. cm. 6
stato di conservazione: discreto. Mancante delle staffe interne di ferro e dell’asse centrale
acquisizione: acquistato a Rino Lancianes
anno: 2005
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: 186-187. «Il grano da macinare viene versato con una mano nel foro praticato nel centro della mola superiore. La farina che cade tutt’intorno (…) viene raccolta con uno scopetto»
I ventilabri
Il ventilabro (lu capistiru).
Il nome dialettale deriva dal latino capisterium il quale, a sua volta, deriva dal greco skaphistérion. A Leonessa, in alcune frazioni (le ville de sopra) lo chiamavano “scifu” (termine aquilano), in altre (le ville de sotto) “capistiru”. Per l’uso del ventilabro si preferiva aspettare le prime ore del giorno, oppure quelle prossime al tramonto, in modo di sfruttare la brezza la quale agevolava l’operazione di mondatura asportando la pula. Impugnando con entrambe le mani sui lati corti mani il ventilabro contenente i grani, con un abile gioco di polsi e braccia s’imprimeva un brusco movimento verso l’alto in modo che il vento avesse modo di asportare la pula. La bravura consisteva nel non disperdere il contenuto e nel saper raccogliere di nuovo i grani mondati che cadevano nel ventilabro. Per i ventilabri si usava tradizionalmente il legno di faggio: un detto locale recita: «Li capistiri se fau de fau: i capistiri si fanno di faggio (fa)».
Ventilabro – capistiru (n. i. 55)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: legno di faggio
descrizione: ventilabro monoxilo con sigla SM incisa due volte sul fondo all’interno. Pareti aggettanti verso il fondo
misure: cm. 76,3 x cm. 30,5; h, esterna cm. 5 h. interna cm. 3,7
stato di conservazione: buono
acquisizione: rinvenimento
anno: 2005
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 136 fig. d; 138.
Ventilabro – capistiru (n. i. 79)
provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio
descrizione: ventilabro monoxilo, pareti aggettanti verso il fondo
misure: l. cm. 73,5; lg. cm. 34,1 h. est. cm. 6,5
stato di conservazione: fessurato in antico in senso verticale, in prossimità di uno dei lati maggiori, conserva le grappe originali in filo di ferro
acquisizione: dono di Maria Zelli
anno: 2003
Ventilabro – capistiru (n. i. 84)
provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio
descrizione: ventilabro monoxilo, pareti aggettanti verso il fondo
misure: l. cm. 82,5; lg. cm. 35,6; h. est. cm. 7,5
stato di conservazione: buono
acquisizione: rinvenimento
anno: 2003
Ventilabro – capistiru (n. i. 84)
provenienza: Villa Pulcini (Leonessa)
materiale: legno di faggio
descrizione: ventilabro monoxilo, pareti aggettanti verso il fondo, fessurato in antico in senso longitudinale sul fondo e riparato in antico con grappe in filo di ferro
misure: l. cm. 70; lg. cm. 29,8; h. esterna cm 4,5
stato di conservazione: discreto
acquisizione: dono di Gina e Luigi Pulcini
anno: 2011
Piccolo ventilabro – capistiriju (n. i. 89)
provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio
descrizione: ventilabro usato per mondare piccole quantità di cereali o legumi
misure: l. cm. 33; lg. cm. 19,5; h. est. cm. 4,7
stato di conservazione: fessurato in antico su uno dei lati, conserva le grappe originali di filo di ferro
acquisizione: dono di Maria Zelli
anno: 2003
Mortaio e pestello da farro
Il mortaio (la pilòcca).
Esistevano morati di diverse dimensioni, da quelli per uso domestico, di dimensioni piccole o medie, a quelli per uso pubblico (come nell’esemplare della nostra collezione museale) di ragguardevoli dimensioni. Il mortaio, monoxilo, era scavato nel legno. Il corpo interno del mortaio aveva sezione cilindrica e, nella parte inferiore, era concavo. È interessante notare come il nome dialettale del mortaio da farro, “la pilòcca”, deriva direttamente dal nome latino di questo utensile: “pila”.
Mortaio da farro – pilòcca (n. i. 81)
provenienza: San Giovenale
materiale: legno di olmo
descrizione: mortaio monoxilo, nella parte superiore è scavata una cavità cilindrica che, in basso, termina con una concavità semisferica
misure: h. cm. 89; parte superiore: diam. cm. 60,5 e cm. 65 (esterni) apertura: diam. cm. 38 e cm. 37, prof. cm. 30,5
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono degli eredi della famiglia Cardilli. Appartenuto al forno della famiglia costruito nel 1898
anno: 2013
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: 178
Pestelli (pistiji).
Nel territorio leonessano esistevano due tipi di pestelli da farro: uno, più piccolo, a forma allungata di clessidra e uno più grande a corpo cilindrico desinente in due masse battenti di forma cilindrica. In questo secondo tipo di pestello, a volte, nella parte mediana era ricavata una depressione per permettere alle mani di maneggiare il pestello.
Pestello da farro – pistiju (n. i. 226)
provenienza: Leonessa
materiale: legno di olmo
descrizione: pestello da farro con forma “a clessidra”, estremità con profilo troncoconico e parte battente arrotondata. Questo antico esemplare era in uso a Leonessa e si differenzia dal tipo più comune di pestello munito di due estremità cilindriche poste alle estremità del manico, anch’esso cilindrico
misure: l. cm. 60; diam. max. cm. 11 e 11,7; diam. min. (impugnatura) cm. 3,6
acquisizione: dono di Antonio Bonanni
stato di conservazione: buono
anno: 2014
Pestello da farro – pistiju (n. i. 243)
provenienza: Leonessa
materiale: legno
descrizione: pestello da farro munito di duplice testa battente
misure: h. cm. 114,5; manico : diam. max. cm. 7,5; teste: h. cm. 20, diam. max. cm. 13,5
acquisizione: dono di Gemmi Sielli
stato di conservazione: buono
anno: 2013
Il farro
Il farro
L’uso di questo cereale, almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, era imprescindibile nell’alimentazione del ceto rurale di Leonessa. Le ricette che impiegano il farro, sotto forma di farina o di grano, sono poche ma tipiche.
L’uso del farro come cereale commestibile risale all’antichità remota. Nella storia di Roma, l’uso del grano incomincia a diffondersi tra le classi più ricche solo dal V sec. a. C. quando si cominciò a importare grano dall’Egitto.
Le fasi della lavorazione del farro.
Prima di poter essere usato per l’alimentazione umana, il chicco deve essere liberato dal coriaceo tegumento che lo ricopre. Per far ciò, il farro veniva sottoposto a varie fasi di lavorazione: prima spulatura sommaria effettuata per mezzo di ventilabri; leggera tostatura nel forno; mondatura nell’apposito mortaio; spulatura finale mediante ventilabro; mondatura manuale per eliminare i residui.
Spulatura.
Per la spulatura del farro si usavano i medesimi ventilabri (capistiri) usati per il grano. Lanciando in aria i semi contenuti nel ventilabro, il vento del mattino o della sera provvedeva ad asportare i residui e la pula incoerente.
Tostatura.
Per permettere di asportare il tegumento che ricopre il chicco, si usava spargere il farro sul piano caldo del forno, una volta cotto il pane, lasciando i semi fino a completo raffreddamento del forno. Questa operazione, previa alla pulitura al mortaio, era detta “‘ncrocchià lo farre”.
Mondatura al mortaio (la pilòcca).
Dopo essere stato leggermente tostato, allo scopo di liberare i chicchi dal tenace tegumento, il farro veniva pestato in un apposito mortaio di legno ripetendo un procedimento già usato nell’antichità. Una volta terminata la leggera tostatura cui il farro era sottoposto – in dialetto una volta “‘ncrocchiatu” – si passava alla pestatura nel mortaio per liberare i grani dal tenace tegumento (la cama) che li ricopre.
Seconda spulatura.
La seconda spulatura del farro, prima della tostatura e del mortaio, era eseguita mediante ventilabri. Allo stesso modo era ottenuta la spulatura finale del farro dopo essere stato tostato e pestato al mortaio.
Mondatura finale.
Per la mondatura finale, eseguita a mano, si usava un ventilabro più piccolo (capistiriju) spargendovi poco a poco i semi da mondare e separando con le dita le eventuali impurità. L’operazione era detta “capà’ lo farre”.
Macinazione del farro.
Date le quantità di consumo famigliare del farro, assai ridotte rispetto al consumo di grano e derivati, il farro non veniva portato al mulino ma macinato in casa mediante piccole macine di pietra azionate a mano.
Taglierino e ferri per la pasta
Taglierino per pasta “alla chitarra”
Entrato nell’uso non prima degli anni Cinquanta, il taglierino per la pasta “alla chitarra” era considerato con sufficienza dalle massaie anziane le quali avevano acquisito l’abilità di tagliare la pasta in tagli, anche sottili, sorprendentemente uniformi.
Taglierino per pasta “alla chitarra” (n. i. 169)
provenienza: Leonessa
materiale: telaio in legno di faggio, fili in acciaio
descrizione: il telaio è composto da due regoli a sezione quadrata desinenti in perni cilindrici passanti in due tavolette, tenuti fermi da due zeppe a una delle estremità. Assicurati mediante chiodi a entrambe le tavolette, una serie parallela di fili metallici serviva a tagliare la pasta in striscioline sottili
misure: h. cm. 43,5; lg. tot. cm. 28,5; telaio: lg. cm. 21,8, spess. regoli cm. 3 x cm. 3,2; tavolette: lg. cm.8,2, spess. cm.2,5
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Silvana Pasquali
anno: 2013
Ferri da pasta.
Nelle occasioni festive, la massaia rurale preparava tagli speciali di pasta come, ad esempio, gli “sfusellati” ottenuti arrotolando una striscia di sfoglia attorno a un ferro di sezione quadrata di circa 5 cm. di larghezza. Si adoperavano appositi ferri da pasta o, in mancanza di questi, stecche di ferro di ombrelli rotti.
Ferro per preparare gli sfusellati (n. i. 173174-175)
provenienza: Leonessa
materiale: ferro
descrizione: ferro di sezione quadrata rastremato e appuntito a entrambe le estremità
misure: cm. 38,3 x mm. 4 x mm. 4 (max.)
misure: cm. 34,7 x mm. 5 x mm. 5 (max.)
misure: cm. 33 x mm. 3 x mm. 3
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Silvana Pasquali
anno: 2013
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