Schiacciapatate
Schiacciapatate (sciattapetati).
«Entrate prepotentemente nell’uso del ceto rurale, dopo un primo periodo di diffidenza in cui le si usava per alimentare i maiali, le patate erano presenti in molte delle rustiche ricette d’un tempo, sopravvissute fino a un paio di decenni addietro. Bollite nel calderone appeso al camino, le patate di dimensioni mediane o grandi erano usate per l’alimentazione umana; quelle più piccole e i tuberi rovinati dalla zappa, per alimentare i maiali. Le patate (lesse o cotte sotto la brace) sostituivano il pane e, quando si faceva il pane, si usava anche aggiungere alla farina una certa quantità di patate passate al setaccio che lo rendevano più morbido e impedivano che si seccasse troppo in fretta. Oltre che per zuppe e minestre, oppure saltate in padella con lo strutto, le patate lesse fornivano un ingrediente indispensabile per le abbondanti insalate estive (specie durante la mietitura e la trebbiatura) nelle quali si usavano anche verdure dell’orto, cipolla, uova sode e l’aceto forte per condire. Per rendere più saporite le patate da cuocere sotto la brace, le si tagliava in due, si cospargeva sulle parti tagliate del sale e le si teneva assieme mediante un bastoncino sottile (zippittu). Le patate in umido, con aggiunta di concentrato di pomodoro, erano cucinate con la carne e anche col baccalà. Gli gnocchi di patate, conditi con sugo di castrato e cacio pecorino, facevano la loro comparsa in tavola solo in occasione di feste importanti e grandi eventi. Le massaie più generose, almeno una volta durante i giorni della mietitura, servivano ai braccianti il sospirato piatto di gnocchi che veniva salutato con evviva fragorosi» (Chávez 2012: 156).
I più antichi schiacciapatate usati sull’altopiano leonessano sono formati da un corpo a base rettangolare, rastremato verso l’alto dal quale si diparte un manubrio orizzontale che permette d’impugnare con entrambe le mani l’attrezzo. Ne esistono di legno e di pietra, entrambe le tipologie sono presenti nella nostra collezione museale. Forme simili, per questo utensile da cucina, si rinvengono nel territorio aquilano.
Schiacciapatate in legno.
Lo schiacciapatate in legno era munito nella parte superiore d’un’impugnatura trasversale che permetteva di usarlo con entrambe le mani. In genere, gli schiacciapatate in legno sono moxili. In casi eccezionali, come nell’esemplare n. i. 192, la parte inferiore dell’attrezzo presenta una pietra incastonata.
Schiacciapatate – sciattapetati (n. i. 192)
provenienza: Leonessa
materiale: legno di pioppo e pietra (labradorite porfirica)
descrizione: antico attrezzo per schiacciare patate composto da manico e corpo in legno e una lastrina di pietra
misure: l. cm. 18; h. cm. 7,2; manici: diam. cm. 3,4; pietra: cm. 4,9 x cm. 6,4 spess. (visibile) mm. 8
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: rinvenimento ex Convento Clarisse
anno: 2013
Nota: la pietra usata, non presente sul territorio, rivela una provenienza archeologica: i Romani importavano la labradorite porfirica dall’Egitto
Schiacciapatate litici.
Gli schiacciapatate ricavati da un solo blocco di pietra presentano nella parte superiore un’impugnatura adatta all’uso del pesante attrezzo con una sola mano.
Schiacciapatate – sciattapetati (n. i. 260)
provenienza: Leonessa
materiale: pietra
descrizione: attrezzo per schiacciare patate
misure: l. cm. 19; lg. cm. 12,5; h. cm. 10; base : spess. cm. 2,3; impugnatura: diam. cm. 5,2; l. cm. 12
stato di conservazione: buono, mancante di un angolo
acquisizione: donazione
anno: 2016
Schiacciapatate monoxilo in legno di pioppo. Ville di Fano, L’Aquila. Collezione privata
Mortaio
Mortai (mortali / mortari).
I mortai, usati per frantumare sale o spezie, sono di legno o pietra.
Mortai di legno.
I mortai di legno hanno il corpo tornito mentre il pestello, in genere, è lavorato a mano. A Poggio Bustone vi erano esperti tornitori del legno dalle botteghe dei quali, spesso, provenivano i mortai usati a Leonessa.
Mortaio di legno con pestello – pistasale / perélla (n. i. 200)
provenienza: Leonessa
materiale: legno di faggio
descrizione: mortaio tornito degli inizi del Novecento appartenuto alla nonna del donatore
misure: diam. max. cm. 15,5; diam. alla base cm. 10; h. cm. 12,8 diam. int. cm. 11,2 profondità interna: cm. 8.2
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono
anno: 2014
Pestello – pistiju (n. i. 200a)
provenienza: come sopra
materiale: come sopra
descrizione: pestello tornito mancante di parte dell’estremità superiore (circa metà della testa)
misure: h. cm 25,8; pestello: diam. max. cm. 6,7; gambo : diam. max. cm. 2,8; testa: diam. cm. 2,8
Mortai di pietra.
I mortai di pietra, eredi dei mortai romani e rinascimentali, presentano la forma classica: corpo a tazza munito di quattro anse usate per tener fermo con la mano il mortaio durante l’uso. Una delle anse è munita di solco–versatoio. I mortai in pietra posseggono, in genere, un pestello ricavato dalla medesima pietra.
Mortaio di pietra da Villa Bigioni, fraz. di Leonessa. Diam. (senza anse) cm. 16,30; diam. con anse cm. 20,6; h. cm. 9, 6; spess. pareti (al bordo) cm. 2,7. Collezione privata.
Frusta
Agitatori a frusta.
I modelli autarchici di questo strumento, usato soprattutto per montare la chiara d’uovo usata nella preparazione dei dolci delle feste, sono formati da un manico in legno munito all’estremità superiore di anello in filo di ferro che permette di appenderlo. Nella parte inferiore, il manico è munito di tondini di ferro ripiegati assicurati al manico stesso mediante legature eseguite con filo di ferro fino.
Frusta da rimestare (n. i. 94)
provenienza: Villa Bigioni
materiale: manico di legno, frusta in ferro
descrizione: la frusta era usata specialmente per battere la chiara d’uovo. È composta da un manico di legno e dalla frusta vera e propria in filo di ferro
misure: l. tot. cm. 33; manico: l. cm. 17 x cm. 2,6 x cm. 2,1; frusta : diam. max. cm. 5,5
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono di Gregorio Bigioni
anno: 2007
Carriola
Carriola (cariòla).
La carriola era spesso usata per trasportare i panni bagnati dal lavatoio alla casa o per il trasporto di derrate; per trasportare letame, mattoni o pietre. Le carriole per letame, o pietre, sono munite di un cassone piuttosto profondo e capace. Le altre, di un cassone meno capiente. La ruota delle antiche carriole è in legno, compresi i raggi e il mozzo. Le varie parti della carriola erano tenute assieme da zeppe di legno passanti nelle prominenze delle pareti interne le quali sporgevano dalle fiancate e dal fondo.
Botticelle in legno
Botticelle in legno (cupélle).
La botticella fabbricata con doghe di legno, di forma oblunga e sezione ovoidale, munita di foro sul dorso, era usata per il trasporto dell’acqua e del vino.
Barilotti (cupellétte).
Per il trasporto dell’acqua, o del vino, da utilizzare durante il lavoro nei campi, si usava una botticella, detta “cupellétta”, costruita con doghe e cerchiata in ferro. Come il recipiente di maggior capacità – la cupélla – anche la cupellétta nella parte superiore era munita di foro da chiudere con tappo. Nella stagione calda e in specie durante i lavori della mietitura e della trebbiatura, l’acqua, in genere, veniva acidulata con aceto di vino per servire da efficace dissetante. Questo costume ereditava la tradizione militare romana della bevanda legionaria – la posca –preparata con acqua con aggiunta di aceto, e talvolta di uova.
Botticella da vino – cupellétta (n. i. 40)
provenienza: agro reatino
materiale: legno di castagno, cerchiature in ferro alle estremità e due al centro. La doga della parte superiore presenta un rialzo rettangolare munito di foro in cui s’incastra il tappo. Su una delle fiancate è incisa la sigla CC
misure: l. cm. 33; h. max. cm. 19,5; ai lati cm. 15,5 x cm. 10 (max.); spessore doghe: mm. 12; fasce di ferro: lg. cm. 2,3; capacità: ca. lt. 5
stato di conservazione: buono
acquisizione: dono di Leonida Carrozzoni
anno: 2011
Canapa
La canapa veniva seminata a primavera, quando col tepore del sole la terra s’era “scallata”. Il seme della canapa era detto, in dialetto, “cannavicciu”. Dato che gli uccelli ne andavano ghiotti, una volta sparso il seme bisognava ricoprirlo in fretta con la zappa e quindi proteggere adeguatamente il campo mediante spaventapasseri.
Verso la fine di agosto si procedeva al primo raccolto della canapa “fémmona”, la canapa di colore biancastro che maturava per prima. Terminato il raccolto, gli steli di canapa erano sparsi sopra le stoppie nei campi in cui si era mietuto il fieno perché asciugassero al sole. Trascorsi alcuni giorni, si procedeva al secondo raccolto, quello della canapa “maschiu”, di colore avana. Raccolta in mannelli (mannocchi) li si batteva mediante una verga sottile e flessibile (lu bastunciju) al fine di liberarla dai semi aderenti agli steli. Una volta mondata, disfatti i mannelli, la canapa-maschio era stesa come la precedente sulle stoppie perché asciugasse al sole. Si preferiva prolungare l’asciugatura degli steli fino a quando le condizioni atmosferiche lo permettevano. Dopo la metà d’agosto, sull’altopiano leonessano, sono frequenti le prime piogge che producono un brusco cambio climatico.
Una volta asciutta, la canapa veniva di nuovo legata in piccoli fasci e conservata al coperto nel fienile o nella rimessa dei carri agricoli e degli attrezzi.
Approfittando del forno caldo, dopo la cottura del pane, si provvedeva a un’ulteriore essiccazione disponendo i mannelli di canapa sul piano caldo del forno e lasciandoveli per un paio di giorni dopo aver chiuso la bocca del forno. Nel forno, la canapa non solo perdeva l’umidità superflua ma induriva anche le fibre: in dialetto, “se ‘ncrocchiava”.
Riposta di nuovo in luogo coperto e asciutto, approfittando delle belle giornate dell’autunno e dell’inverno, le fibre della canapa venivano mondate passandole nella gramola, o maciulla (la macenuria). Le fibre di canapa, tirate con forza per un capo e costrette a passare nelle scanalature interne della gramola, perdevano i “cocci”, i tegumenti dei semi rimasti aderenti alla fibra. Questa operazione, molto faticosa, era riservata a due uomini robusti di cui uno alzava e abbassava la pesante parte superiore della gramola mentre l’altro tirava le fibre.
Una volta passata attraverso la gramola – in dialetto “macenuriata” – si provvedeva a “costare” la canapa, ossia a pettinarla mediante pettini in ferro. Per compiere più agevolmente questa operazione, si legavano le estremità dei fasci di fibre a un gradino della scala usata per salire al fienile.
Una volta pettinata, la canapa veniva “arrocciata”, legata a formare delle crocchie. A questo punto, le fibre erano sottoposte alla cardatura finale, eseguita in genere da un cardatore che usava uno scardasso a mano formato da due tavole munite di chiodi ricurvi.
Prima di essere filata mediante la rocca e il fuso, la canapa veniva fatta bollire assieme alla cenere per renderla perfettamente pulita.
Dalla canapa si ottenevano due tipi di fili: “lu tumintu”, un filo più grossolano, e “li nòcchi”, fili più fini e di migliore qualità. I fili di canapa erano dunque avvolti sulla spoletta del telaio per ottenere i tessuti usati per lenzuola e indumenti. A proposito del filo più grossolano, lu tumintu, il nome dilettale deriva dal latino tomentum, nome dato nell’antica Roma all’imbottitura del cuscino realizzata con fieno o foglie di canna mentre i più ricchi usavano lana e persino piume di cigno.
“La tela de ‘na ‘òte era fatica”: questa poesia, composta da Paolo Santini di Terzone, rievoca e riassume con uno stile fluido e suggestivo il ciclo tradizionale di lavorazione della canapa, l’arte antica delle filatrici e tessitrici dell’altopiano.
La tela de ‘na ‘òte era fatica:
non se cumpria mica allu mercatu,
servia la pazienza e l’arte antica
e ‘n pezzettillu de terra ben curatu.
Assieme co’ la mamma, o co’ ‘n’ amica,
dopu d’avene tuttu somentatu
aspettianu ‘mpazienti la matina
che verde se facia la cannaina. 1)
Po’ càrpila, reggira, remucina: 2)
se quante cose pora ggente nóstra
ch’a dille tutte non ce se ‘ndovina
pe’ quantu lavorata era ‘sta ggiostra.
Prima allu furnu, doppu a ‘na cantina
co’ ‘na macinuletta 3) a mette ‘n mostra
la parte più gentile, più preziusa:
l’anima de la pianta e de la spusa. 4)
E nasce lo tomindu 5) che se pusa
sopre a ‘na conocchia abituata
e mentre che l’arriccia, po’ lu ‘nfusa 6)
‘ntonenno sottovoce ‘na cantata.
Se lecca po’ le dita come s’usa: 7)
che al fin de l’opra sembra ‘mascarata
e coscì stracca, co’ illu stranu visu
a illi munelli regalía ‘n sorrisu.
Lu filu è fattu, lu telaru è tisu,
mo è ggiunta l’ora de ‘ntramà’ la tela:
mo de l’artista se vede lu pisu, 8)
se li nodilli 9) e le brutture cela.
Quanno lu materiale era precisu,
venia ‘n prodottu simile a ‘na vela
ch’ancora va girennu e spesso vedo
tra li recordi de ‘n vecchiu corredo.
_____
1) cannaina / cannavina: l’appezzamento di terreno, finemente lavorato con la zappa e rifinito a rastrello, dove si seminava la canapa; li cannavicci, invece, erano i frutti della canapa che i ragazzi mangiavano crudi e qualcuno cuoceva
2) càrpila ... remucina: raccoglila .... smuovi la canapa per farla seccare
3) macinuletta: lo strumento di legno per cardare la canapa ed eliminare i cocci
4) i rotoli di tessuto grezzo di canapa (“li ròduli”) facevano parte del corredo della sposa
5) tomindu / tomentu: le fibre della canapa pronta per la filatura (lat. tomentum)
6) lu ‘nfusa: dopo averla attorta con le dita, passa la canapa dalla conocchia al fuso
7) per filare le donne si umettavano le dita con la saliva; quando c’era molta canapa da filare, per aumentare la salivazione usavano addentare mele acerbe oppure delle mele selvatiche (schianchi)
8) pisu: il peso, in senso traslato: l’abilità della filatrice
9) nudilli: i noduli prodotti dall’aggiunta di nuova canapa dalla conocchia al filo del fuso
Lana
Le greggi di ovini da lana sono state da sempre una delle risorse più importanti dell’economia leonessana. Fin da tempi antichi, Leonessa importava lana pregiata che giungeva in Francia e nelle Fiandre attraverso il mercato di Ascoli Piceno o il mercato di Norcia percorrendo, dunque, la Salaria o l’antica “via Nursina” che da Norcia, passando per Grotti, giungeva a Spoleto. Parte della lana esportata all’estero era lavorata per ottenere i pregiati velluti delle Fiandre: il “Palio del Velluto”, antica festa tradizionale di Leonessa che ancor oggi si celebra il giorno dei SS. Pietro e Paolo, ricorda quel fiorente commercio. Della tosatura delle pecore si occupavano “specialisti” detti “carosini” – “carosà” significa “tosare” – i quali, verso l’inizio dell’estate, salivano sull’altopiano leonessano provenienti dall’Ascolano o dalla piana reatina.
Il lavaggio della lana grezza.
Un primo lavaggio della lana veniva effettuato al momento di tosare le pecore: i “carosini” costringevano piccoli gruppi di pecore a passare attraverso un passaggio obbligato, fatto di rami o di reti, in modo da spingerle nei “bottegoni”: le pozze d’acqua più o meno profonde formate dai locali torrenti e, in specie, dal Corno, o Tascino. Dopo la tosatura, i proprietari della lana provvedevano a lavarla. Il procedimento tradizionale consisteva nel sistemare la lana in capaci caldai contenenti acqua calda e soda. L’acqua con la soda veniva cambiata ogni giorno, per diversi giorni, in modo da eliminare le incrostazioni di terra e sterco. Il procedimento più breve consisteva nel far bollire a lungo la lana sporca assieme alla soda. Una volta pulita, la lana era portata al lavatoio, o al torrente, per essere lavata in abbondante acqua. Stesa sopra dei teli, la lana bagnata veniva lasciata all’aria aperta, provvedendo a voltarla di tanto in tanto, perché asciugasse perfettamente. Una volta asciutta, le donne provvedevano a rendere soffici i biocccoli sbrogliandoli a mano uno ad uno. Alla fine di questo processo, la lana era pronta per la vendita, o per l’uso famigliare che la impiegava soprattutto per ricavarne il filo per tessere indumenti. L’uso del materasso di lana si diffuse tardi nella società rurale, assieme all’uso della rete metallica da branda, sulla scia della moda cittadina.
Cardatura e utensili per cardare.
Per poter essere filata mediante il fuso, la lana doveva essere previamente cardata in modo da rendere le fibre disponibili alla filatura. Per la cardatura si usava uno scardasso manuale formato da due tavolette munite di chiodi sulle facce interne. Più raramente, specie per cardare la lana dei materassi, si ricorreva all’opera di cardatori specializzati – detti “falalani” – provenienti dall’Abruzzo. Questi ultimi usavano uno scardasso a banco.
Mestoli, cucchiai di legno, colini, scolapasta
Mestoli (sgommarèlli).
I mestoli più antichi erano di rame stagnato con manico in ferro. Più tardi vennero sostituiti da mestoli di ferro smaltato, in seguito di alluminio.
Nella foto: Mestolo in rame. Diam. alla bocca cm. 10,5 diam. alla base cm. 7,2 l. cm. 33,2. Ocre S. Pietro. Collezione privata
Cucchiaie di legno (cucchiarélle; cucchiare; cucchiarò’).
Di varie forme e dimensioni, ricavate soprattutto dal legno del faggio, un tempo erano autocostruite
Colini (schiumarole).
I colini più antichi erano in rame. Più tardi vennero sostituiti da colini in ferro smaltato, poi di alluminio. Appartengono alla categoria dei colini anche le “schiumarole”, grossi colini muniti di manico in ferro usati per estrarre dalla cagliata la ricotta, e le scolapaste usate per scolare la pasta ma anche il siero di latte.
Antica schiumarola di rame stagnata all’interno; manico di ferro. Diam. cm.22,2 l. cm. 44. Ocre S. Pietro. Collezione privata
Antico colino in rame stagnato all’interno. Diam. all’orlo cm. 22,1 h. cm. 4,5. Ocre S. Pietro.
Collezione privata
Colapasta in rame. I fori sono disposti a formare un motivo floreale a sei petali, come le caratteristiche decorazioni delle arche abruzzesi. Diam. all’orlo cm. 31,2 diam. alla base cm. 25 h. cm. 6,4
Imbuti (‘mmuttaturu).
Gli imbuti più antichi erano in rame.
Forchette, coltelli, trinciante e tagliere
Forchette da scalco (forchettoni).
Le lunghe forchette da scalco, bidenti, usate per togliere la carne dal fuoco o prelevare il bollito dalla pentola, erano in ferro con l’estremità superiore ripiegata per permettere di appendere la forchetta.
Forchetta da scalco – forchettò(ne) (n. i. 96)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: ferro
descrizione: forchetta a due rebbi
misure: h. cm. 46; diam. corpo mm. 8; lg. rebbi cm. 11; distanza tra i rebbi cm. 4,2
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Augusto Ciaglia
anno: 2007
Coltello da cucina – cortéllu (n. i. 265)
provenienza: Leonessa
materiale: ferro, legno
descrizione: coltello da carne, tracce di percussione sul dorso; marchio sulla lama: MFE TORINO
misure: l. tot. cm 40,8; l. lama cm. 27,4; lg. lama alla base cm. 6,4
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono
anno: 2014
Coltelli.
Coltelli di varie fogge, quasi sempre di fabbricazione industriale, erano usati per le diverse operazioni culinarie, oltre che per la lavorazione delle carni, in specie la carne di maiale.
Coltelli da cucina.
Oltre che per tagliare la carne, il coltello grosso con la lama dal profilo curvilineo era usato per tagliare la sfoglia della pasta fatta in casa. Coordinando i movimenti della mano destra, che alzava e abbassava il coltello poggiato all’asse di lavoro ruotando sull’estremità della lama e della mano sinistra che, poggiata sulla sfoglia arrotolata, la spingeva marcando con le tre dita medie la larghezza del taglio, le massaie esperte ottenevano tagli uniformi con sorprendente velocità.
Coltello da cucina – cortéllu (n. i. 264)
provenienza: Leonessa
materiale: ferro, legno
descrizione: coltello per usi vari
misure: l. tot. cm. 37, 8; l. lama cm. 27,1; lg. lama alla base cm. 4,2
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono
anno: 2014
Trincianti (mannare).
Il trinciante a un solo taglio (mannarèlla) era usato per separare la carne dall’osso, o per tagliare tranci di carne attaccata all’osso. Di fabbricazione locale, o più spesso industriale, munito di manico di legno formato da guanciole assicurate al codolo mediante rivetti, il trinciante ripeteva le forme degli antichi trincianti romani documentati nell’iconografia. Esistevano anche trincianti di dimensioni minori, ricavati da un solo pezzo di ferro, e trincianti a doppio taglio, costruiti da fabbri locali, come documenta l’esemplare qui riprodotto.
Trinciante. Dalla Frazione di Villa Bigioni: l. cm. 26,3; lg. tagliente cm. 8,7; spess. max. cm. 1. Fabbricazione artigianale. Collezione privata.
Il tagliere (battiluntu / tajere).
Nella cucina rurale il tagliere occupava un posto molto importante: non v’era salsa, specie nei giorni di festa – eccettuando la Quaresima – per la quale non si usasse il battuto di lardo. Il nome del tagliere deriva proprio da questa funzione: battere il lardo e, in genere, i tessuti adiposi del porco (l’untu). Il tagliere era ricavato da una spessa tavola di faggio, o di quercia. Nei giorni di festa, fin dal mattino presto, nei vicoli dei borghi si udiva il battere fitto della mannaia sul tagliere e quello del coltello pesante col quale la massaia tagliava la sfoglia della pasta appena fatta in casa.
Pentole e tegami di coccio
Pentole e tegami di coccio.
Questi economici recipienti erano di gran lunga i più diffusi. Non essendovi a Leonessa artigiani figulini, erano acquistati nelle fiere stagionali, o nelle locali botteghe.
Pentolini.
Pentolini di coccio di varie dimensioni erano usati specialmente per preparare il “caffè”. Abbiamo scritto tra virgolette per chiarire il fatto che il caffè (Coffea arabica) nel ceto rurale era usato solo in occasioni speciali. Nel quotidiano, prendevano il nome di “caffè” surrogati del medesimo ottenuti tostando l’orzo e perfino certe qualità di ghiande.
Pentolino in terracotta – piluccia (n. i. 211)
provenienza: San Vito (Leonessa)
materiale: terracotta
descrizione: corpo di profilo cilindrico rastremato verso l’alto e munito di due piccole anse a nastro contrapposte diametralmente; base piana; labbro assente; bocca circondata da una scanalatura; una seconda scanalatura a circa un terzo dall’altezza. Interno invetriato. La donatrice ricorda che il recipiente era usato per preparare il caffè
misure: diam. max. cm. 10,7; diam. della bocca (esterno) cm. 9,1 e cm. 9,1 (interno); h. cm. 8,1
acquisizione: dono di Maria Adelaide Di Persio
stato di conservazione: ottimo
anno: 2014
Mastelli.
I mastelli più antichi, di forma tronco-conica, erano realizzati con doghe di legno tenute ferme da cerchi di ferro o da fasce di legno (in genere di ornello, o nocciolo). A Leonessa vi erano artigiani, detti “cerchiari”, specializzati nella realizzazione di queste fasce lignee che permettevano una tenuta ottimale.
Secchi (sicchi).
I secchi più antichi, al pari dei mastelli, erano realizzati anch’essi con doghe di legno. Più tardi vennero introdotti nell’uso quotidiano i secchi di ferro zincati.
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