Mobili della cucina
I mobili della cucina.
La cucina della casa rurale era dotata di pochi mobili, tutti funzionali alle attività riguardanti la custodia, la preparazione, la cottura e il consumo dei cibi. Nell’architettura rurale era molto diffuso l’uso di adibire a credenza delle nicchie aperte nella parete, fornite di mensole e, magari, chiuse da una tenda.
L’arca da grano (arcone).
La provvista di grano ad uso famigliare era custodita in uno speciale mobile, detto “arcone”, formato da una serie di tavole sovrapposte a incastro infilate in quattro montanti quadrangolari scanalati sui due lati interni. Le tavole erano fissate ai montanti mediante cavicchie di legno (zéppe). Fuoriuscendo in basso dal corpo del mobile, i montanti formavano i piedi alti circa 40 cm. Nella parte superiore, l’arcone era munito di un coperchio centrale sollevabile fornito di chiusura frontale a cerniera e occhiello. In basso, sul davanti, l’arcone era munito di un’apertura (bocchétta) rastremata in basso, chiusa da una tavoletta che scorreva tra due guide convergenti in basso. Sollevando più o meno la tavoletta, si erogava la quantità di grano desiderata. Quasi sempre, all’interno del mobile, vi erano uno o due bastoni in legno, fissati alla parete frontale e a quella posteriore, ai quali venivano appesi formaggi per permettere una stagionatura dolce e per difenderli dai topi. A volte, il formaggio lo si adagiava sul grano. Data la grandezza del mobile – variabile, a seconda della consistenza del nucleo famigliare tra i due e gli oltre tre metri di lunghezza, con un’altezza compresa tra m. 1,30 ca. e m. 2 ca. – il criterio modulare di costruzione permetteva di montarlo in situ senza inconvenienti per il trasporto. Per la costruzione dell’arcone si preferiva il legno di cerro, usato per le tavole, e il faggio per i montanti. In alcuni esemplari, tiranti in ferro assicuravano una migliore tenuta delle fiancate maggiori. L’arcone, a causa dell’ingombro, non sempre era situato nella cucina ma poteva essere alloggiato nella dispensa.
La forma più antica di arcone era ricavata da un grosso tronco d’albero scavato all’interno, disposto verticalmente e munito nella parte superiore di un coperchio in legno. Questa era certamente la forma originaria di questo deposito per grani la quale rinvia a tempi lontanissimi, quando anche per le sepolture si scavavano tronchi d’albero perché servirssero da bara (esemplari notevoli sono conservati nel Museo Archeologico di Terni). Gli arconi monoxili sono del tutto scomparsi dal nostro territorio. Si ha notizia di un ultimo esemplare superstite conservato nella frazione di Terzone.
Arca per grano – arcone (n. i. 56)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: legno di faggio (montanti); cerro (doghe); ferro (tiranti)
descrizione: l’arcone è costruito con quattro robusti regoli, posti verticalmente ai quattro angoli, a servire da supporto alle tavole (6 per ogni lato) che compongono le fiancate. Le tavole scorrono in due alloggiamenti praticati verticalmente in ognuno dei regoli, disposti a formare un angolo di 90° in modo da alloggiare ciascuno le estremità delle assi che compongono due fiancate contigue. La parte superiore è chiusa da tavole e munita di un coperchio centrale apribile, incernierato sul retro. Nella parte anteriore, il coperchio è munito di un’assicella che, agganciando la fiancata anteriore, permette la tenuta impedendo ai ratti d’introdursi all’interno. Il coperchio è munito di chiusura. In questo esemplare, datato agli anni Trenta del ‘900, la tenuta è assicurata da quattro tiranti metallici muniti di dadi. Sul davanti, al centro della fiancata e in basso, vi è l’apertura (bocchétta) per l’estrazione del grano formata da un’assicella rastremata in basso che scorre tra due guide laterali disposte a V
misure: h. tot. cm. 166; h. senza piedi cm. 140; lg. cm. 164,5; tavole : spess. cm. 2,5; piedritti: cm. 8 x cm. 8; coperchio: cm. 90,5 x cm. 76,7; misure interne (spazio immagazzinabile) cm. 156 x cm. 8 2,5 x cm. 130,5 pari a m³ 1.679
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Modesto Marchetti
anno: 2005
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 144 (“cassone”)
La madia (l’arca).
La madia era usata per preparare il pane, conservarlo e custodirvi il lievito. Il piano da lavoro, all’interno del mobile, era accessibile sollevando il coperchio superiore. La tavoletta frontale ribaltabile agevolava l’operazione d’impasto della massa. Allo stesso scopo serviva l’aggetto frontale del mobile.
La preparazione del pane, componente essenziale dell’alimentazione rurale, era soggetta a una serie di precauzioni rituali: sulla pagnotta, una volta impastata, s’incideva una croce usando il coltello o il raschietto di ferro (la rasóra) al fine di proteggere la massa da possibili influenze nefaste (la ‘mmidia; l’ócchiu) durante la delicata fase della lievitazione. Al medesimo fine, si usava anche invocare s. Martino da Tours “santo dell’abbondanza” e, a volte, una sua immagine era posta all’interno del coperchio. Quando s’incontrava una donna intenta a preparare il pane, era mostra di riguardo salutarla con le parole: “San Martinu te ll’accresca”. L’augurio avrebbe anche preservato la massa dalle perniciose conseguenze del malocchio come, ad esempio, una mancata o insufficiente lievitazione.
Per la preparazione del lievito-madre, si preferiva attendere la fase crescente della luna il cui rinnovato potere avrebbe agito incrementando l’energia fermentante del lievito.
La madia era usata anche per la cura dei neonati “allupiti”, o “allupati”: figli di una donna che, quand’era incinta, s’era cibata di carni di animali uccisi dal lupo. Il bimbo “allupitu” era colto da accessi furiosi, si graffiava, gridava, mordeva i capezzoli della madre, non riusciva a prender sonno. Per curarlo, lo si adagiava sul piano della madia insieme al pane appena sfornato la cui fragranza avrebbe distrutto il “veleno” inoculato dal lupo. Allo stesso scopo si usava anche esporre il bimbo alla bocca del forno mentre il pane cuoceva. Il rito terapeutico si fondava sulla sacralità del pane, cui fu conferita la dignità di sostituto del corpo di Cristo, e anche sulla sua valenza simbolica di conquista eccellente del lavoro agricolo e della civiltà sedentaria, opposta all’attività predatrice del lupo e al suo habitat selvaggio. L’invenzione dell’agricoltura, infatti, permise all’uomo di abbandonare il nomadismo legato all’attività di caccia e raccolta.
Madia – arca (n. i. 260)
provenienza: Trognano (Cascia)
materiale: legno
descrizione: madia da pane costruita a Leonessa agli inizi degli anni ’40 da Domenico Falconi; trasferita a Trognano e usata da Alda Di Carlo, madre del donatore. La madia si compone di un corpo inferiore munito di due sportelli apribili entrambi verso l’esterno e di un corpo superiore, al cui interno s’impastava la massa per il pane. Il corpo superiore, in alto, aggetta verso l’esterno ed è chiuso da un coperchio superiore, munito di due cerniere, che si apre verso l’alto.
misure: l. cm. 114; lg. cm. 59; lg. alla base del corpo superiore cm. 53; h. cm. 92,5
acquisizione: dono della famiglia Di Carlo
stato di conservazione: ottimo
anno: 2016
Tra le madie più antiche e celebri di Leonessa vi è quella usata dalle monache dell’ex-Convento delle Clarisse, oggi custodita nel Convento dei Frati Minori. A questo mobile, risalente al XVIII sec., la fede popolare attribuisce un miracolo: in un’epoca di assoluta povertà, un filone di pane conservato nella madia, una volta tagliato, sarebbe tornato intatto. Questo tipo di madia non era usato per preparare il pane ma solo per custodirlo una volta cotto.
Antica madia dal Convento delle Monache Clarisse di Leonessa
(oggi nel Convento dei PP. Cappuccini di Leonessa)
Fornelli, Ventole e Stufe
Fornelli a carbone.
Il modo tradizionale di cucinare, e il più antico, usava il fuoco del focolare domestico. Più tardi, verso gli inizi del Novecento, si iniziarono a usare cucine fisse alimentate a carbonella. Questo modo di cucinare contravveniva alle rigide norme dell’autarchia: la carbonella, infatti, bisognava comprarla. Carbonaie erano attive sull’altopiano leonessano ma il loro prodotto alimentava soprattutto il circuito commerciale diretto verso le città. La cucina con fornelli a carbone era realizzata in muratura: dotata di alcuni fornelli nella parte superiore, nella parte inferiore presentava l’alloggiamento destinato al combustibile. I fornelli, alloggiati in aperture quadrate, erano di ghisa, avevano forma tronco-piramidale rovesciata e contenevano la carbonella accesa.
Ventole per fornelli a carbone.
La tipica ventola per fornello a carbone consisteva in un ventaglio di penne di tacchino ed era munita di manico in legno.
Stufa economica.
La stufa economica, sistemata nella cucina, serviva come fonte di calore e, allo stesso tempo, permetteva di cucinare sulle piastre di ghisa di cui era fornita sfruttando il calore prodotto dalla camera di combustione. Questo tipo di stufa, assai diffuso, rispetto al focolare, offriva il vantaggio del minor consumo di legna sia per il riscaldamento che per la cottura dei cibi. Sulla piastra superiore si aprivano aperture circolari di vario diametro da usare come fornelli. Ogni apertura era chiusa da una serie di anelli concentrici asportabili in modo da consentire una minore o maggiore esposizione al fuoco dei recipienti. In un’apposito alloggiamento situato a sinistra della camera di combustione, inoltre, la stufa economica era dotata di una caldaia che manteneva sempre calda l’acqua da usare in cucina. A destra della camera di combustione era allogiato il vano che serviva da forno. In alcune case le stufe economiche sono ancora in uso.
Panche da focolare
Panche da focolare.
La panca da focolare, in legno, aveva forma leggermente curva per permettere agli occupanti di rimanere a una distanza pressoché equidistante dal fuoco. Ai due estremi, la panca da fuoco era munita di braccioli. Caratteristica di questo mobile era la spalliera molto alta la quale, continuando in basso sotto il sedile fino a toccare il pavimento, permetteva di isolare coloro che vi si sedevano dalla corrente fredda richiamata dal flusso ascensionale dell’aria calda nella cappa. Un vecchio proverbio recitava in proposito: «Lu caminu, denanzi te scalla, deretru te gela». La panca da focolare ovviava il meglio possibile a questo inconveniente, tipico dei camini sprovvisti di retroalimentazione.
Recipienti per cucinare
Pentola per la cottura dei legumi (pigna).
Per cuocere i legumi – fave secche, fagioli, ceci, cicerchia – si usava un apposito recipiente panciuto, rastremato in basso, munito di manico fissato alla bocca e alla spalla della pigna. La sera prima di andare a dormire, s’immergeva la parte inferiore della pigna contenete i legumi in ammollo nella cenere sotto la quale covava la brace. Il calore continuo, durante la notte, in recipiente coperto permetteva un’efficace precottura dei legumi. La pigna era, in genere, invetriata all’interno e all’esterno fino alla metà circa del recipiente.
Recipiente per la cottura di cereali e legumi – pigna (n. i. 210)
provenienza: San Vito (Leonessa)
materiale: terracotta
descrizione: recipiente a forma di brocca con unica ansa a nastro; profilo rastremato verso il basso con piede anulare; bordo rilevato contornato, al centro, da una scanalatura.
Invetriatura interna di colore giallastro estesa al bordo con sbavatura all’esterno sulla spalla del recipiente.
misure: h. cm. 16; diam. cm. 20,6; bocca (leggermente ellittica): diam. interno cm. 15,2 e cm. 13,2; ansa: lg. cm. 3 spess. max. mm. 12
acquisizione: dono di Maria Adelaide Di Persio
stato di conservazione: ottimo
anno: 2014
bibliografia: Scheuermeier 1996, II: 18-19, fig. 15
Recipiente per la cottura dei cereali – pigna (n. i. 257)
provenienza: Campagna Romana
materiale: terracotta
descrizione: corpo globulare rastremato in basso; piede anulare; unica ansa a nastro. Invetriatura nera interna ed esterna fin quasi al piede
misure: diam. max. cm. 18,3; bocca: diam. est. cm. 12,7; piede: diam. cm. 8,8; h. cm. 20,9
acquisizione: dono del Museo di Poggio Mirteto
stato di conservazione: ottimo
anno: 2016
Recipiente per la cottura dei cereali – pigna (n. i. 258)
provenienza: Monterotondo
materiale: terracotta
descrizione: corpo globulare rastremato in basso; piede anulare; unica ansa a nastro. Invetriatura interna ed esterna; decoraz. dipinta
misure: diam. max. cm. 19,5; bocca: diam. est. cm. 14,7; piede: diam. cm. 10,4; h. cm. 21,7
acquisizione: dono del Museo di Poggio Mirteto
stato di conservazione: ottimo
anno: 2016
Pigna. Dalla Frazione di Villa Bigioni: diam. max. cm 17,6; diam. alla bocca cm. 13,5; h. cm. 17,7. Collezione privata.
Calderone di rame e paiolo
Calderoni di rame (callari) e grossi paioli.
Calderoni e paioli di rame, di svariate dimensioni, erano costruiti artigianalmente da specialisti locali detti “callarari”. Uno di essi aveva la sua bottega nella cripta dell’ex-Convento di S. Francesco, dove oggi è alloggiata la Mostra Archeologica Permanente del Museo. Il corpo del grande recipiente da fuoco, di un solo pezzo, era in rame battuto; l’orlo superiore era ribattuto a martello attorno a un grande anello di tondino di ferro. Subito sotto l’orlo, due agganci opposti diametralmente e fissati al corpo del recipiente mediante ribattini, permettevano l’alloggiamento del manico del calderone, in tondino di ferro. Le estremità del manico potevano essere ripiegate verso l’alto, o disposte orizzontalmente verso l’esterno. Il corpo di questi recipienti ha profilo troncoconico. L’interno, in genere, era stagnato. Per la stagnatura, si esponeva il recipiente al fuoco fino a quando fosse caldo abbastanza da sciogliere lo stagno, quindi si provvedeva a stendere lo stagno fuso sulle pareti del recipiente usando della stoppa. I calderoni non stagnati erano usati per il lavaggio della lana.
I recipienti in rame usati per la cottura dei cibi facevano parte del corredo di ogni cucina rurale. Immancabile, fra di essi, il capiente calderone (lu callaru) con capienza variabile a seconda dell’uso e del numero dei componenti del nucleo famigliare, perennemente appeso alla catena del focolare per fornire acqua bollente, o calda, da usare nelle varie preparazioni culinarie e mansioni domestiche.
Calderone di rame non stagnato all’interno. In questa tipologia, l’orlo superiore non è ripiegato attorno all’anello di ferro che lo circonda; una piattina di ferro corre tutt’attorno all’orlo del calderone fissata al corpo dello stesso mediante rivetti di rame. Misure: diam. alla bocca cm. 54, h. cm. 40,7. Ocre S. Pietro.
Collezione privata.
Calderone di rame – callaru / callarò (n. i. 101)
provenienza: agro romano (Monterotondo)
materiale: rame, manico in ferro
descrizione: calderone in rame, non stagnato all’interno, usato per riscaldare l’acqua destinata alla preparazione della liscivia. Munito di manico semicircolare in ferro piegato all’infuori da ambo i lati per permettere il trasporto. Le attaccaglie che permettono il passaggio e la rotazione del manico sono in rame, fissate al corpo del calderone da rivetti. L’orlo superiore è ripiegato attorno a un cerchio di tondino di ferro
misure: h. senza manico cm. 46, h. con manico cm. 78,5; diam. max. cm. 63,5, diam. alla base cm. 53; manico: diam. mm. 14
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Augusta e Ettore Benedetti
anno: 2008
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 37 fig. 92; 38
Paioli di rame.
Recipienti più piccoli, pentole o paioli in rame (callariji) formavano anch’essi parte dell’attrezzatura della massaia rurale. Ovviamente, la disponibilità di recipienti in rame era commisurata alla condizione economica della famiglia. In ogni modo, sia pure limitato a un callaru e a un callariéjiu, l’uso dei recipienti di rame era ovunque diffuso. L’interno dei recipienti era, di norma, stagnato ad eccezione dei paioli usati esclusivamente per bollire l’acqua destinata alla preparazione della liscivia e alla bollitura dei panni più sporchi.
Paiolo da formaggio – callaru (n. i. 106)
provenienza: Casale dei Frati (Leonessa)
materiale: rame stagnato all’interno, manico in ferro
descrizione: il paiolo è formato da due parti sovrapposte verticalmente unite assieme tramite battitura. Il paiolo da formaggio ha profilo troncoconico
misure: diam. alla bocca cm. 37; diam. alla base cm. 25; h. cm. 35,8; h. (col manico) cm. 55, diam. del bordo cm. 1,7; diam. tondino del manico cm. 1
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: acquistato a Maria Nicoli
anno: 2003
Piccolo paiolo – callaréllu / callariju (n. i. 92)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: rame stagnato all’interno
descrizione: paiolo di forma tronco-conica munito di manico semicircolare in tondino di ferro piegato e assottigliato in punta ad entrambe le estremità passanti in due anelli assicurati con rivetti alle pareti del paiolo. Il bordo del paiolo è ripiegato verso l’esterno su un cerchio interno di ferro. Utilizzato per la cucina quotidiana
misure: h. cm. 22 (senza il manico); diam. est. cm. 28; diam. int. cm. 25,5; diam. alla base cm. 18,5; manico: diam. cm 1
stato di conservazione: buono. Conserva, all’esterno, una spessa patina carboniosa
acquisizione: dono di Stefano Marchetti
anno: 2009
Piccolo paiolo – callaréllu / callariju (n. i. 212)
provenienza: San Vito (Leonessa)
materiale: rame stagnato all’interno; manico di ferro
descrizione: paiolo in rame stagnato all’interno, profilo leggermente tronco-conico, fondo concavo. Tutt’attorno al bordo corre una fascia formata da strisce di ferro assicurate mediante ribattini. Le due estremità del manico, dal profilo semicircolare, passano in due occhielli assicurati al paiolo da ribattini. Il reperto è coperto, all’esterno, da uno spesso strato di fuliggine. La stagnatura interna è ben conservata
misure: diam. sup. cm. 29; h. cm. 19,5
acquisizione: dono di Maria Adelaide Di Persio
stato di conservazione: ottimo
anno: 2014
Spiedi
Spiedi (spidi).
Gli spiedi avevano tutti la medesima forma ed erano ricavati da un tondino di ferro appiattito a caldo, appuntito a un’estremità e, sull’altra, attorto a formare un manico munito di gancio. La lunghezza dello spiedo variava dai 50 cm. ca. agli 80 cm. ca.
Appoggiato alle apposite sporgenze degli alari o ad altro supporto, lo spiedo veniva fatto girare sulla brace. Come per la graticola, anche l’uso della carne arrostita allo spiedo era riservato specialmente a occasioni festive.
Spiedo – spidone / schidone / schidù’ (n. i. 97)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: ferro
descrizione: spiedo con impugnatura a tortiglione ripiegata in alto in forma di ansa. Lo spiedo corto era detto, in dialetto, “schidu”, quello lungo “schidù’”. Fabbricazione artigianale
misure: l. cm. 80,5; manico: l. cm. 11, lg. max cm. 1, spess. max. mm. 5
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Augusto Ciaglia
anno: 2007
Spiedo corto. Dalla Frazione di Ocre: l. cm. 43,5. Collezione privata
Dettagli dell’impugnatura di due spiedi dalla Frazione di Ocre. Collezione privata
Moduli abitativi
Moduli abitativi
Per quanto riguarda la tipologia delle case rurali dell’altopiano leonessano, una ricerca esaustiva non è stata ancora compiuta. Per questo motivo, tenendo in conto la sostanziale affinità tra i moduli abitativi del ceto rurale di Leonessa e quelli della confinante Valnerina, abbiamo adottato l’accurata tipologia, risultato delle ricerche di F. Bonasera, H. Desplanques, M. Fondi e A. Poeta, pubblicata nell’opera “La casa rurale nell’Umbria” edita dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (Bonasera et al., 1955). Passiamo dunque in rassegna le principali tipologie di dimore rustiche secondo il criterio stabilito dai menzionati studiosi:
“Casa con annessi incorporati”: è composta dalla costruzione adibita a dimora del nucleo famigliare (o delle famiglie) nei cui muri perimetrali sono incorporati i “rustici”, ossia la stalla (o anche l’ovile, il porcile, il pollaio) il magazzino degli attrezzi e il forno. A questa tipologia appartenevano le case più povere e più antiche – quasi ovunque scomparse in Umbria – che Henri Desplanques classifica come “tipo elementare”, consistenti in una costruzione a un solo piano, con una sola stanza che fungeva da cucina e camera da letto e col “rustico” (in genere una piccola stalla) che formava parte integrante della struttura abitativa.
“Casa con annessi addossati”: in questa tipologia di dimora rurale, i “rustici” non sono incorporati nella medesima fabbrica in cui si ubica l’abitazione, ma addossati alle pareti esterne della medesima
“Casa con annessi separati”: la struttura abitativa è separata dagli annessi, o “rustici”. In questa tipologia, i “rustici” non sono né incorporati né addossati ma separati dalla casa e costruiti in prossimità di essa, anche in moduli separati, sfruttando lo spazio disponibile. In molte frazioni di Leonessa, i “rustici” sono separati dall’abitazione e comprendono, in genere, una stalla a piano terra e un fienile (pajaru) al primo piano accessibile mediante scala interna di legno. Il pavimento del fienile è composto da un tavolato poggiato su travi.
“Casa con annessi distanti”: questa tipologia in cui i “rustici” non solo sono separati dall’abitazione ma posti fuori del perimetro del paese, o del borgo, sull’altopiano leonessano è molto rara. Nella cinta muraria dell’antica Leonessa, ad esempio, una via parallela al corso – Via Durante Dorio – è conosciuta localmente come “via de le zeperélle”, ossia via dello sterco di capra, in quanto nelle parti basse delle abitazioni erano alloggiate le stalle.
“Casa di tipo unitario con abitazione sovrapposta al rustico”: è la più frequente a Leonessa e nelle frazioni. In questo modulo costruttivo, in un unico corpo architettonico sono contenuti la dimora sovrapposta al “rustico”, o ai “rustici” (stalla, magazzino, ecc.). La scala d’accesso al piano superiore, in questa tipologia abitativa, è posta all’esterno, meno spesso all’interno della costruzione. La scala esterna permette di risparmiare spazio all’interno del fabbricato e, se coperta, risulta ugualmente comoda anche nella brutta stagione. La casa con abitazione sovrapposta al rustico presenta il vantaggio della necessità di un unico tetto, risparmiando in tal modo sulla parte più costosa della casa, dato che i coppi di copertura dovevano essere acquistati da artigiani specializzati (a Leonessa la fornace per i coppi era sita nella frazione di Volciano). Questa tipologia di modulo abitativo, inoltre, presenta il vantaggio della facile accessibilità ai “rustici” e, in specie, alla stalla. Nelle case più antiche, una botola di legno aperta nel pavimento della stanza da letto, permetteva di scendere direttamente nella stalla mediante una scala di legno. I disagi dal punto di vista igienico risultano più che evidenti, ma gli allevatori di un tempo preferivano tenere continuamente sott’occhio i loro animali ascoltando le loro voci e i rumori: «I “rumori delle bestie” – muggiti o belati; nitriti o ragli; lo scalpitare; il risuonare concitato delle catene alle mangiatoie – avvertono se il bestiame sta bene o male, se è irrequieto o infuriato, o se sta per partorire. E l’allevatore sa interpretare ognuno di questi “rumori”» (Chávez 2012: 57).
Per quanto riguarda la scala esterna, munita o meno di copertura e addossata a una parete della casa, questa permette l’accesso a un pianerottolo (in dialetto “balcone”) che può essere coperto da tetto, dal quale si accede alla cucina. L’ingresso alle stanze avviene passando dalla cucina. La scala esterna, inoltre, offre la comodità del sottoscala nel quale può essere alloggiato il pollaio, oppure la conigliera.
Una tipologia abitativa a parte è costituita dalle “case di pendio”: i fabbricati addossati a una parete naturale. In questa tipologia manca la scala – interna o esterna – e l’ingresso all’abitazione avviene nella parte alta (posteriore) del fabbricato; l’ingresso ai “rustici” è sito invece nella parte bassa, o frontale. Il tetto è a un solo spiovente. Una scala interna, in genere di legno, permette di scendere ai “rustici”. Sovente, accanto all’abitazione del piano superiore è sito il fienile.
Per quanto riguarda le finestre, specie nelle zone a clima freddo, come appunto sull’altopiano leonessano, la loro apertura era in genere molto ridotta onde evitare la dispersione di calore sicché la luce che attraversava la finestra permetteva appena di rischiarare l’ambiente. In alcune antiche dimore rustiche, le stanze più interne erano prive di finestre.
Per quanto concerne l’orientamento, la parte della casa esposta a settentrione, è in genere priva di finestre. All’interno della casa, nella parte settentrionale della stessa, una stanza senza finestre – la “stanza del freddo” – era destinata a dispensa. La facciata della dimora rustica è volta, di preferenza, verso sud o sud-ovest in direzione dell’aia e nella medesima direzione guardano le finestre.
Il “casale”. Le dimore rurali ubicate fuori dalla cinta muraria e fuori dai nuclei abitativi – le frazioni dette in dialetto “case” (ad es. Ca’ Bigioni, Ca’Pucini, ecc.) – sono comprese nella tipologia dei “casali”. In questo tipo di abitazione, il “rustico” non è mai separato dal modulo abitativo essendo incluso nel perimetro della costruzione. Può essere affiancato alla zona residenziale, o sottoposto ad essa, a piano terra. A volte, la cucina (piuttosto spaziosa) è posta a piano terra, accanto alla stalla. Dalla cucina, una scala interna sale al primo piano dove sono ubicate le stanze da letto e il fienile. Quest’ultimo è munito di un “finestrone”, aperto giusto sopra la porta della stalla, dal quale il fieno – compresso nelle “balle” rettangolari, o raccolto in un ampio telo prima dell’uso del trattore, era fatto scendere mediante carrucola.
La stalla dei bovini: un tempo, era piuttosto piccola poiché la famiglia rurale possedeva, in genere, una vacca e un toro, o due vacche da usare nell’aratura e nei trasporti pesanti come animali da tiro. Il latte vaccino serviva a preparare il formaggio per il consumo domestico. Solo dopo la metà degli anni Cinquanta, quando si iniziò a praticare l’allevamento dei bovini da latte o da carne a scopo commerciale, la stalla assunse dimensioni molto maggiori. Nella stalla tradizionale, la mangiatoia era in muratura; il bordo esterno della stessa era formato da un trave munito di fori attraverso i quali passavano le catene legate al collo degli animali. Il pavimento della stalla era coperto da lastre di pietra, oppure consisteva in terra battuta. Si ricordi che, nelle case rurali, prima dell’introduzione del gabinetto, si usava la stalla e, in particolare, il mucchio di letame. La stalla, in genere, era munita di una piccola finestra. Per quanto possa sembrare antigienico, specie in inverno, dato il tepore prodotto dalla fermentazione del letame e dal calore animale, la stalla diventava un luogo di ritrovo dove le donne scambiavano pettegolezzi o confidenze e, a volte, il fieno della lettiera diventava un’improvvisata alcova per amori furtivi:
Te ricordi bellina lì a ‘la stalla?
Tu guardavi ‘n cielo e i’ jò ‘n terra.
L’ovile: era alloggiato in un ambiente più piccolo della stalla dei bovini. Poteva essere addossato alla casa, o separato da essa. L’ovile offriva anche una preziosa fonte di sostanze organiche da usare come concime: prima dell’introduzione dei concimi chimici – la quale avvenne gradatamente a partire dalla metà degli anni Cinquanta del ‘900 – la principale risorsa usata per concimare la terra era lo sterco ovino proveniente dalla pulizia dell’ovile, effettuata una volta l’anno, in autunno, poco prima della semina. Ovviamente, per la concimazione si usava anche sterco bovino ed equino.
La stalla dell’asino e del cavallo: era sempre addossata all’abitazione, data la frequenza con cui si ricorreva a questi animali per il trasporto di persone o cose (ad esempio la legna).
Il porcile (stallittu / sturiju): era, in genere, separato dalla casa e formato da una piccola costruzione coperta da tetto a doppio spiovente e da una piazzola antistante, cinta da un basso muro.
Il pollaio (lu callinaru): era alloggiato in una piccola costruzione, in muratura o in legno, isolata, o adiacente alla stalla.
Il fienile e l’erbaio: nelle case in cui non era incluso o annesso alla costruzione, si ergeva sull’aia il covone (lu pajaru) da cui si prelevava, volta per volta, la quantità di fieno necessaria all’alimentazione del bestiame. Nei pressi della stalla vi era l’erbaio (lu fronnaru) destinato all’alimentazione del bestiame, ossia il deposito delle fronde essiccate, specie quelle dell’acero e dell’olmo. L’erbaio poteva essere contenuto nel magazzino degli attrezzi, oppure sistemato a formare un covone sull’aia.
Il focolare
Focolare e rituali domestici.
Alcune delle antiche usanze riguardanti il focolare nel suo ruolo di centro ideale della famiglia e luogo dotato d’una propria intensa sacralità, sono sopravvissute fino ai nostri giorni. La più significativa di esse consisteva nelle offerte che, la sera della vigilia di Natale, venivano deposte o versate sul ceppo natalizio (lu cippu) ritualmente collocato nel focolare dal padre di famiglia, o dal membro più anziano di essa.
L’offerta più diffusa consisteva nel versare sul ceppo che ardeva un bicchiere di vino accompagnando l’offerta con delle formule auguranti salute al capofamiglia come, ad esempio, la seguente:
Cippu, cippone
mòre lu cippu
e campa lu patrone.
A compiere l’offerta era il capofamiglia, oppure il più anziano di casa. Il ceppo di Natale era scelto con cura nel bosco fin dalla tarda primavera in modo che avesse tempo per asciugare. Si preferiva il legno della quercia tagliando la parte del tronco sovrastante le radici (lu petecone). Il ceppo, per tradizione, era destinato ad ardere fino all’Epifania. Si credeva che alla vigilia del Natale, trascorsa la mezzanotte, la Sacra Famiglia entrasse in ogni casa per sostare un poco accanto al focolare domestico. Per questo, si aveva cura di lasciar libera la cucina disponendo dinanzi al fuoco due sedie, per Giuseppe e per Maria, e una piccola sedia (sediòla) per il Bambino Gesù. La cenere residua, una volta arso il ceppo natalizio, veniva sparsa nei campi coltivati, o ai piedi delle piante da frutto perché propiziasse la fertilità della terra. Lo spargimento della cenere, in genere, avveniva il giorno di Natale al mattino. Quando la cenere era sparsa su un campo coltivato a grano (‘ranu), si usava recitare le seguenti formule accompagnandole con la recita d’un padrenostro:
‘Ranu, ‘ranittu
Si’ binidittu!
Oppure: «‘Ranu, ‘raniju mia, te pòzza satollà come me so’ satollatu/a io la sera de Natale!».
La formula seguente era recitata, molto tempo addietro, nella frazione di Albaneto:
Avant’ieri fu Natale
ieri fu santu Stefanu
oggi è san Giovanni.
La cennere pe li campi.
Addò ‘rriva la mia voce
non ce pòzza graninà,
né acqua e né vientu
nisciunu malu tiempu.
Come me satollai avanti sera io
io cuscì se pòzzano satollà li ‘rani mia,
come me satollai io ieri e dimani
cuscì se pòzzano satollà tutti li ‘rani.
Il fuoco era considerato, per sua essenza, supremo agente purificatore per questo, quando un’immagine sacra era ormai così deteriorata da dover essere smessa, in segno di rispetto veniva bruciata nel focolare domestico. Lo stesso si faceva con i ramoscelli d’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme (le parme) quando si portavano a casa i nuovi ramoscelli. Quando le donne, specie le giovani, si tagliavano i capelli, li gettavano nel fuoco domestico per evitare che qualcuno se ne impossessasse per comporre fatture. La madre che aveva il flusso latteo troppo abbondante, premendo il seno faceva cadere tra le fiamme del focolare qualche goccia di latte. Oltre a consumare quel prodotto della donna, di per sé sacro, il fuoco agiva analogicamente sulla fonte “disseccando” la produzione eccessiva. Quando, in omaggio alla tradizione, si lavava il corpo d’un morto col vino, si gettava nel focolare il vino usato a tal fine per neutralizzare il nefasto contagio.
Nella Valnerina, confinante con l’altopiano leonessano, quando si accoglieva in casa un animale – cane o gatto – con l’intenzione che vi si stabilisse, per far sì che si affezionasse alla sua nuova dimora e non fosse tentato di scappar via, lo si faceva girare per tre volte attorno al focolare, o alla catena del camino. L’origine di questa pratica, diffusa anche nella Valle d’Aosta, è certamente celtica.
Quando si vegliava un defunto, per tutto il tempo in cui la salma sostava in casa era strettamente vietato accendere qualsiasi tipo di fiamma, incluso il fuoco del focolare per riscaldarsi o cucinare. In omaggio a questo tabù, risalente alle usanze della Roma precristiana, i parenti del defunto dovevano consumare cibi offerti da altri parenti, o dai vicini di casa, i quali erano stati cucinati su focolari diversi da quello della casa in lutto. In occasione delle feste dei morti, durante la notte, si usava lasciare il fuoco acceso e, sulla tavola, la conca con l’acqua e del cibo per rifocillare le anime degli antenati che tornavano a visitare i loro congiunti.
Formule per l’accensione del fuoco.
Molto tempo addietro, tra il serio e il faceto, al momento di accendere il fuoco, si usavano recitare alcune formule come le seguenti:
Pija, pija fócu,
li lépiri ce see cóciu
se cóciu su la paltriccia,
lu fócu mia s’appiccia.
Una volta acceso il fuoco, recita la formula, sul letto di steli o paglia (la paltriccia) usato per accendere la fiamma, si metteranno a cuocere delle lepri; una variante del terzo verso recita: «se cóciu su la niccia», ossia si cuociono sull’esca (niccia) sulla quale viene convogliata la scintilla che sprizza dall’acciarino. Oppure si diceva:
Pija, pija fócu,
pàritu era cócu,
màmmota se ‘ngegna,
si tu piji mettu legna.
Queste formule sono antiche: nostri informatori che hanno superato gli ottant’anni di età, le conoscono per averle sentite recitare dai loro avi.
«Più che di filastrocche scherzose, si tratta di formule propiziatorie il cui senso è espresso dal primo verso: “pija, pija fócu”; gli altri versi riguardano il fine per cui si chiede al fuoco domestico di accendersi, ossia per poter cucinare; l’ultimo verso esprime magicamente l’azione realizzata – “lu fócu mia s’appiccia”, “eccu lu fócu che s’appiccia” – oppure la promessa di nutrire il fuoco nascente – “si tu piji mettu legna” – o di alimentare la fiamma col grasso delle carni: “li lèpiri ce sse cóciu”» (Polia-Chávez 2002: 161-162).
Utensili per il focolare.
Passiamo in rassegna gli utensili aventi una diretta attinenza col focolare domestico e con gli usi del focolare.
Abbreviazioni: l. = lunghezza; lg. = larghezza; h. = altezza; diam. = diametro; spess. = spessore
Alari (li capifóchi). L’uso degli alari in ferro battuto era diffuso soprattutto nelle famiglie più abbienti. I più poveri, ossia la stragrande maggioranza del ceto rurale d’un tempo, più che gli alari di ferro usava disporre, ai lati interni del focolare, mattoni o tronchi come supporto alla legna che ardeva.
Paracenere (paracennere). Usati allo scopo di contenere le ceneri e le braci in modo che non fuoriuscissero dal piano del focolare (aròla) i paracenere erano costruiti, in genere da fabbri locali, con piattina di ferro. La forma dei paracenere era quadrata o semicircolare. I paracenere di forma quadrata, sui due angoli anteriori, potevano presentare una piegatura aggettante sul davanti del paracenere, che aveva lo scopo di rafforzare gli angoli. Indipendentemente dalla forma, nella parte anteriore, i paracenere erano muniti di un pomo di ottone.
Oracoli del fuoco.
Secondo antichissime tradizioni precedenti il cristianesimo, si attribuiva la fuoco potere divinatorio: quando la fiamma ardeva chiara e scintillante, o scoppiettava allegramente, annunciava l’arrivo d’una lettera gradita, o la visita del padrone di casa; quando borbottava, o dal legno si sprigionavano sibilando soffi di vapore, si credeva che qualcuno stesse parlando male della famiglia. In questo caso, si usava prevenire i danni prodotti dalla maldicenza e dall’invidia altrui pronunciando formule come la seguente:
Chi ce mintua e ce merlengua
ce mittisse li piedi, lu capu e la lengua.
Ossia: “Chi pronuncia il nostro nome (ce mintua) e sparla di noi (ce merlengua) possa bruciare in questo fuoco i piedi, la testa e la lingua”. Quando le braci non splendevano chiare e brillanti e si riducevano presto in cenere, significava che in breve le condizioni atmosferiche sarebbero peggiorate.
La legna da non ardere.
Sebbene Leonessa sia circondata da imponenti estensioni boschive, non tutta la legna era ritenuta adatta ad alimentare il focolare domestico. Ciò non derivava solo dal potere calorico sviluppato dai vari tipi di legno ma dalla natura sacra, o nefasta di alcuni alberi. Ad esempio, si evitata con ogni cura di alimentare il fuoco del focolare col legno del sambuco pena la sterilità delle galline le quali non avrebbero più deposto uova, o, addirittura, pena la morte della madre di famiglia. Secondo una credenza popolare, assai diffusa in Abruzzo e conosciuta in molte parti d’Europa, si credeva che Giuda si fosse suicidato impiccandosi a un albero di sambuco. Sebbene, oggi, nessuno dei nostri informatori leonessani ricordi la relazione sambuco – Giuda, è ipotizzabile che anche sul nostro altopiano, un tempo, questa leggenda fosse conosciuta. Ugualmente nefasto era ritenuto ardere nel focolare il legno dell’acero campestre (Acer campestris) perché, secondo una leggenda, durante la fuga in Egitto un arbusto di acero campestre (oppiu) avrebbe offerto riparo a Maria e al Bambino riparandoli dai fulmini. Si credeva per questo che il legno di quest’albero fosse refrattario al fuoco. Un detto ammoniva: «J’oppiu, casa ‘mpiccia e fòcu smorza».
Era assolutamente proibito ardere nel focolare domestico i vecchi gioghi da buoi pena l’isterilirsi dei campi. I gioghi inutilizzabili dovevano essere sotterrati, mai arsi. Così pure si evitata d’indurire al calore del fuoco i gioghi nuovi perché quel calore sarebbe risultato dannoso al collo delle bestie da tiro. Si evitata con ogni cura d’introdurre in casa tizzoni semicombusti trovati per via provenienti da focolari estranei: si credeva che se uno di quei legni avesse arso nel focolare domestico avrebbe provocato la morte del capofamiglia. I carboni o i legni provenienti da falò sacri, come quelli accesi la notte della vigilia della festa di S. Antonio abate, o quelli accesi nella notte della traslazione della Santa Casa di Loreto (“la Venuta”) erano gettati tra le fiamme del focolare domestico.
Paracenere
Paracenere – paracennere (n. i. 266)
provenienza: Leonessa
materiale: ferro, ottone
descrizione: antico paracenere di fabbricazione artigianale di forma semicircolare, munito di due flange alle estremità posteriori e di un pomo d’ottone sul davanti
misure: diam. max. cm 56; piattina: h. cm. 6, spess. mm. 2; pomo: diam. cm. 4
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono
anno: 2016
Catene da focolare
Le catene da focolare servivano ad appendere e mantenere i recipienti sul fuoco. Costruite da fabbri locali, si compongono di tre parti:
1. Gancio superiore ricavato da una barretta di ferro piegata, in alto, a formare un’ansa abbastanza ampia da permettere l’aggancio con la barra di ferro murata all’interno della cappa e, in basso, a formare un gancio più acuto e più stretto che serve ad agganciare gli anelli della catena, oppure ad agganciare direttamente il manico dei grandi caldai. Alla base del gancio, un foro passante serve a permettere il passaggio del primo anello della catena.
2. Catena: formata da un certo numero di anelli (a seconda dell’altezza interna del camino) poteva essere usata in tutta la sua estensione, oppure agganciata in modo da accorciare la distanza e sollevare il recipiente. All’ultimo anello della catena è fissato il gancio inferiore.
3. Gancio inferiore: serve ad alloggiare il manico di recipienti più piccoli (pentolini, ecc.) ed è costruito usando una barretta di ferro spianata a martello, in basso, a formare il gancio e, in alto, ripiegata ad anello. In genere, il gambo del gancio inferiore è lavorato a tortiglione.
Catena da focolare – catena (n. i. 267)
provenienza: Leonessa
materiale: ferro
descrizione: antica catena da focolare di fabbricazione artigianale
misure: l. tot. cm. 131; barra del gancio superiore: l. tot. cm 73, lg. cm. 2,7, spess. mm. 7; anelli della catena: diam. est. cm. 8,5; gancio inferiore: l. cm. 18, lg. cm. 3
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono
anno: 2009
In alcune catene da fuoco, la parte inferiore del gancio superiore (quella in cui era assicurato il primo anello della catena) e la parte terminale del gancio inferiore (quella cui veniva agganciato il recipiente) invece di un solo gancio terminava con due ganci contrapposti. Questo tipo di catena poteva essere usato in tutta la sua estensione, oppure, agganciando i ganci terminali alla barra passante nella cappa del camino, si avevano a disposizione due doppi ganci terminali cui sospendere i recipienti. Gli anelli della catena, a loro volta, potevano essere usati per alloggiare ganci, o catenelle (v. sotto).
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