I mobili della cucina.
La cucina della casa rurale era dotata di pochi mobili, tutti funzionali alle attività riguardanti la custodia, la preparazione, la cottura e il consumo dei cibi. Nell’architettura rurale era molto diffuso l’uso di adibire a credenza delle nicchie aperte nella parete, fornite di mensole e, magari, chiuse da una tenda.
L’arca da grano (arcone).
La provvista di grano ad uso famigliare era custodita in uno speciale mobile, detto “arcone”, formato da una serie di tavole sovrapposte a incastro infilate in quattro montanti quadrangolari scanalati sui due lati interni. Le tavole erano fissate ai montanti mediante cavicchie di legno (zéppe). Fuoriuscendo in basso dal corpo del mobile, i montanti formavano i piedi alti circa 40 cm. Nella parte superiore, l’arcone era munito di un coperchio centrale sollevabile fornito di chiusura frontale a cerniera e occhiello. In basso, sul davanti, l’arcone era munito di un’apertura (bocchétta) rastremata in basso, chiusa da una tavoletta che scorreva tra due guide convergenti in basso. Sollevando più o meno la tavoletta, si erogava la quantità di grano desiderata. Quasi sempre, all’interno del mobile, vi erano uno o due bastoni in legno, fissati alla parete frontale e a quella posteriore, ai quali venivano appesi formaggi per permettere una stagionatura dolce e per difenderli dai topi. A volte, il formaggio lo si adagiava sul grano. Data la grandezza del mobile – variabile, a seconda della consistenza del nucleo famigliare tra i due e gli oltre tre metri di lunghezza, con un’altezza compresa tra m. 1,30 ca. e m. 2 ca. – il criterio modulare di costruzione permetteva di montarlo in situ senza inconvenienti per il trasporto. Per la costruzione dell’arcone si preferiva il legno di cerro, usato per le tavole, e il faggio per i montanti. In alcuni esemplari, tiranti in ferro assicuravano una migliore tenuta delle fiancate maggiori. L’arcone, a causa dell’ingombro, non sempre era situato nella cucina ma poteva essere alloggiato nella dispensa.
La forma più antica di arcone era ricavata da un grosso tronco d’albero scavato all’interno, disposto verticalmente e munito nella parte superiore di un coperchio in legno. Questa era certamente la forma originaria di questo deposito per grani la quale rinvia a tempi lontanissimi, quando anche per le sepolture si scavavano tronchi d’albero perché servirssero da bara (esemplari notevoli sono conservati nel Museo Archeologico di Terni). Gli arconi monoxili sono del tutto scomparsi dal nostro territorio. Si ha notizia di un ultimo esemplare superstite conservato nella frazione di Terzone.
Arca per grano – arcone (n. i. 56)
provenienza: Ocre (Leonessa)
materiale: legno di faggio (montanti); cerro (doghe); ferro (tiranti)
descrizione: l’arcone è costruito con quattro robusti regoli, posti verticalmente ai quattro angoli, a servire da supporto alle tavole (6 per ogni lato) che compongono le fiancate. Le tavole scorrono in due alloggiamenti praticati verticalmente in ognuno dei regoli, disposti a formare un angolo di 90° in modo da alloggiare ciascuno le estremità delle assi che compongono due fiancate contigue. La parte superiore è chiusa da tavole e munita di un coperchio centrale apribile, incernierato sul retro. Nella parte anteriore, il coperchio è munito di un’assicella che, agganciando la fiancata anteriore, permette la tenuta impedendo ai ratti d’introdursi all’interno. Il coperchio è munito di chiusura. In questo esemplare, datato agli anni Trenta del ‘900, la tenuta è assicurata da quattro tiranti metallici muniti di dadi. Sul davanti, al centro della fiancata e in basso, vi è l’apertura (bocchétta) per l’estrazione del grano formata da un’assicella rastremata in basso che scorre tra due guide laterali disposte a V
misure: h. tot. cm. 166; h. senza piedi cm. 140; lg. cm. 164,5; tavole : spess. cm. 2,5; piedritti: cm. 8 x cm. 8; coperchio: cm. 90,5 x cm. 76,7; misure interne (spazio immagazzinabile) cm. 156 x cm. 8 2,5 x cm. 130,5 pari a m³ 1.679
stato di conservazione: ottimo
acquisizione: dono di Modesto Marchetti
anno: 2005
bibliografia: Scheuermeier 1996, I: 144 (“cassone”)
La madia (l’arca).
La madia era usata per preparare il pane, conservarlo e custodirvi il lievito. Il piano da lavoro, all’interno del mobile, era accessibile sollevando il coperchio superiore. La tavoletta frontale ribaltabile agevolava l’operazione d’impasto della massa. Allo stesso scopo serviva l’aggetto frontale del mobile.
La preparazione del pane, componente essenziale dell’alimentazione rurale, era soggetta a una serie di precauzioni rituali: sulla pagnotta, una volta impastata, s’incideva una croce usando il coltello o il raschietto di ferro (la rasóra) al fine di proteggere la massa da possibili influenze nefaste (la ‘mmidia; l’ócchiu) durante la delicata fase della lievitazione. Al medesimo fine, si usava anche invocare s. Martino da Tours “santo dell’abbondanza” e, a volte, una sua immagine era posta all’interno del coperchio. Quando s’incontrava una donna intenta a preparare il pane, era mostra di riguardo salutarla con le parole: “San Martinu te ll’accresca”. L’augurio avrebbe anche preservato la massa dalle perniciose conseguenze del malocchio come, ad esempio, una mancata o insufficiente lievitazione.
Per la preparazione del lievito-madre, si preferiva attendere la fase crescente della luna il cui rinnovato potere avrebbe agito incrementando l’energia fermentante del lievito.
La madia era usata anche per la cura dei neonati “allupiti”, o “allupati”: figli di una donna che, quand’era incinta, s’era cibata di carni di animali uccisi dal lupo. Il bimbo “allupitu” era colto da accessi furiosi, si graffiava, gridava, mordeva i capezzoli della madre, non riusciva a prender sonno. Per curarlo, lo si adagiava sul piano della madia insieme al pane appena sfornato la cui fragranza avrebbe distrutto il “veleno” inoculato dal lupo. Allo stesso scopo si usava anche esporre il bimbo alla bocca del forno mentre il pane cuoceva. Il rito terapeutico si fondava sulla sacralità del pane, cui fu conferita la dignità di sostituto del corpo di Cristo, e anche sulla sua valenza simbolica di conquista eccellente del lavoro agricolo e della civiltà sedentaria, opposta all’attività predatrice del lupo e al suo habitat selvaggio. L’invenzione dell’agricoltura, infatti, permise all’uomo di abbandonare il nomadismo legato all’attività di caccia e raccolta.
Madia – arca (n. i. 260)
provenienza: Trognano (Cascia)
materiale: legno
descrizione: madia da pane costruita a Leonessa agli inizi degli anni ’40 da Domenico Falconi; trasferita a Trognano e usata da Alda Di Carlo, madre del donatore. La madia si compone di un corpo inferiore munito di due sportelli apribili entrambi verso l’esterno e di un corpo superiore, al cui interno s’impastava la massa per il pane. Il corpo superiore, in alto, aggetta verso l’esterno ed è chiuso da un coperchio superiore, munito di due cerniere, che si apre verso l’alto.
misure: l. cm. 114; lg. cm. 59; lg. alla base del corpo superiore cm. 53; h. cm. 92,5
acquisizione: dono della famiglia Di Carlo
stato di conservazione: ottimo
anno: 2016
Tra le madie più antiche e celebri di Leonessa vi è quella usata dalle monache dell’ex-Convento delle Clarisse, oggi custodita nel Convento dei Frati Minori. A questo mobile, risalente al XVIII sec., la fede popolare attribuisce un miracolo: in un’epoca di assoluta povertà, un filone di pane conservato nella madia, una volta tagliato, sarebbe tornato intatto. Questo tipo di madia non era usato per preparare il pane ma solo per custodirlo una volta cotto.
Antica madia dal Convento delle Monache Clarisse di Leonessa
(oggi nel Convento dei PP. Cappuccini di Leonessa)
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