Cottura: la gestione comunitaria del forno da pane.
Per quanto riguarda il forno da pane, vi è da distinguere tra forni privati, gestiti da una sola famiglia o da un gruppo di famiglie congiunte da vincoli di parentela, e forni pubblici costruiti dal Comune e gestiti dalle famiglie residenti in un borgo, o nelle frazioni dei paesi. Nel primo caso, quando si trattava di moduli abitativi rurali isolati nei campi (casali) il forno era separato dal fabbricato della casa, formava un corpo a sé ed era ubicato nelle adiacenze della cucina. Nelle case rurali aggruppate nei borghi, il forno a gestione famigliare era alloggiato in un piccolo corpo in muratura addossato al corpo della casa. In alcuni casi, nei moduli abitativi muniti di accesso esterno mediante scala addossata al fabbricato, il forno poteva essere ubicato nella loggetta coperta sita all’estremità superiore della scala d’accesso, di rimpetto alla porta della cucina, la quale nelle case rurali costituiva la porta d’entrata alla casa.
I forni gestiti comunitariamente dagli abitanti di un borgo, o d’una frazione, posti in genere al margine d’una piazzetta, costituiscono un modulo architettonico a sé stante coperto da tetto a doppio spiovente sul quale s’innalza il comignolo. Il forno in cui avviene la cottura del pane, costruito in muratura con pianta circolare e coperto a volta, con piano in mattoni – chiuso da sportello asportabile in ferro – è preceduto da un vano coperto il quale reca sul lato destro e sul sinistro una serie di tavole poggiate su sostegni di legno murati alla parete e destinata ad appoggiarvi le tavole coi pani prima e dopo la cottura. In alcuni forni, sul retro, si apre una piccola legnaia destinata ad alloggiare le fascine e il legname minuto occorrente alla cottura.
La legna necessaria alla cottura era portata sul posto dalle famiglie che si erano accordate per cuocere il pane in quel giorno. Una volta arse le fascine e scaldato convenientemente il piano di cottura, mediante una pala si provvedeva a sistemare le braci tutt’attorno al perimetro dello stesso e, mediante apposito bastone fornito di stracci, si provvedeva altresì a liberare il piano di cottura da residui di brace o carboni che avrebbero potuto inserirsi nella massa del pane. Chiuso lo sportello di ferro, si attendeva la cottura.
«Verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, un po’ dovunque, i forni pubblici utilizzati dagli abitanti dei borghi smisero di fumare. Il declino di quest’antichissima, tradizionale incombenza femminile, si deve alla maggior disponibilità di denaro liquido, alla consistenza molto più esigua dei nuclei famigliari e alla più scarsa disponibilità di tempo. A ciò, va aggiunto il consistente spopolamento dei borghi rurali che rendeva difficile svolgere un lavoro comunitario come quello richiesto dalla gestione inter-famigliare del forno pubblico. Occorre, inoltre, tener presente che la panificazione richiede, da parte della massaia, un impegno abbastanza gravoso in termini di ore lavorative. Insomma, il pane bianco acquistato dal fornaio rientra nel numero delle “commodità” cittadine adottate progressivamente dal contado a partire dal dopoguerra». (Chávez 2012: 142).
La cottura del pane, operazione delicata da cui dipendeva il buon esito della panificazione e la provvista bisettimanale del pane quotidiano, era soggetta ad alcune precauzioni rituali di tipo apotropaico volte ad allontanare dal pane in cottura i temuti influssi della fascinazione: il malocchio e l’invidia (l’òcchiu; la ‘mmidia). Prima di disporre il pane sul piano di cottura, rivolte verso le massaie si segnavano e, introducendo il pane, dicevano “Nel nome del Padre”, oppure “Il Signore ti benedica”; una volta chiuso lo sportello del forno, vi tracciavano sopra una croce usando la mano, o la pala da forno, e alcuni erano soliti pronunciare la formula: “San Martino l’accresca”.
Tra gli usi magico-terapeutici del forno da pane vi è da menzionare l’esposizione alla bocca del forno, mentre il pane era in cottura, dei bambini “allupati” / “allupiti”: neonati partoriti da donne che, essendo incinte, s’erano cibate delle carni di animali sgozzati dal lupo. Si credeva che i neonati acquisissero caratteristiche lupine che si manifestavano in una innaturale aggressività e irrequietezza. L’esposizione al calore e al profumo del pane in cottura avrebbero neutralizzato il “veleno” inoculato dal lupo.
Strumenti usati per infornare il pane.
Gli strumenti utilizzati per trasportare il pane fino al forno e per la sua cottura erano: la tavola da trasporto; il cercine per sistemare la tavola sulla testa; il tessuto con cui il pane veniva coperto durante il trasporto al forno e dal forno per preservarlo dalla polvere e, d’estate, dalle mosche; la pala da forno usata per infornare e sfornare; il mondatoio per tener pulito il piano di cottura.
Cottura sotto la brace del focolare.
Alternativa alla periodica cottura del pane nel forno, la cottura di focacce sotto la brace del focolare domestico era usata occasionalmente.
Cottura sotto la teglia.
Specie in occasioni festive, alcuni dolci o focacce erano cotte non nel forno ma sul piano del focolare usando come copertura una teglia. Questo tipo di cottura, non esente da una connotazione sacrale, ripete l’antico metodo usato nella Roma antica per preparare le offerte (liba) destinate agli dèi. Si ricordi, a questo proposito la derivazione dalla parola “teglia” – dial. umbro “tegghia” – dal latino tegula. (A Leonessa “sóru” dal lat. solum).
Cottura sotto la cenere.
Era in genere riservata alle saporite patate prodotte sull’altopiano leonessano. Dopo averle disposte sul piano del focolare, le si ricopriva con brace e uno strato di cenere fino a cottura ultimata.
Uso devozionale del pane.
Per quanto riguarda l’uso del pane in contesti devozionali, ricordiamo i principali:
Il pane dei morti:
nella festa d’Ognissanti venivano preparati da ogni famiglia dei piccoli pani contrassegnati da una croce. Al mattino, i poveri e i bambini si recavano di casa in casa e, in cambio della recitazione di un padrenostro e di un requiem per i defunti della famiglia, ottenevano un “pane de li mórti”. Un tempo, nel Leonessano, si usava preparare per Ognissanti dei dolci speciali detti “le fave de li morti”, sostituto delle zuppe di fave secche distribuite altrove ai poveri nella medesima occasione.
Il pane di S. Nicola:
in alcune frazioni, come ad esempio ad Albaneto e a Vallunga, in occasione della festa di S. Nicola di Mira, poi di Bari, si preparavano le “pagnottèlle de san Nicola”. Per cuocere questi piccoli pani, durante la novena in onore del santo, che iniziava il 26 novembre, si raccoglievano solo cespugli spinosi e rovi, trascinati in fasci fino ai villaggi. Nello stesso periodo si macinava il “fiore” del grano, ossia il grano scelto da utilizzare per la preparazione delle pagnottelle della quale erano incaricate solo ragazze vergini. Le verginélle lavoravano di notte e avevano diritto alla colazione con latte e caffè e biscotti o pane abbrustolito, oltre a ricevere in dono razioni di caldarroste, o biscotti con un goccio di vino. Ogni famiglia sui faceva carico della preparazione di una certa quantità di pani sui quali veniva apposto il segno SN (S. Nicola) sormontato dal profilo d’una mitria vescovile. Nel forno veniva acceso il fuoco di rovi e le vergini che avevano preparato il pane dovevano portarlo al forno sulle apposite tavole poggiate sulla testa ma senza il cercine. Se sullo sportello di ferro del forno, durante la cottura, si formavano goccioline di condensa, il segno era interpretato in senso fausto poiché quelle goccioline erano assimilate alla celebre “manna” che, a Bari, distilla dalle ossa del santo protettore delle vergini povere. Le ceste coi pani venivano portate in chiesa per esservi benedette nel giorno della festa del santo, quindi da ogni famiglia le pagnottelle erano distribuite in dono.
Nella frazione di Vallunga, il 10 settembre, festa di S. Nicola da Tolentino, venivano preparati speciali pani formati ognuno da tre o sei piccole masse congiunte di pasta lievitata. Cotto nel forno, contenuto in cesti di vimini adorni di fiocchi rossi, era benedetto in chiesa e quindi distribuito.
Il pane di S. Antonio abate.
In occasione della festa di S. Antonio abate, cui il popolo aveva attribuito il ruolo di patrono degli animali domestici, si preparavano piccoli pani che, una volta benedetti, venivano somministrati agli animali in caso di malattia.
Per quanto riguarda il generale rispetto nei confronti del pane, ci limitiamo a ricordare alcuni tabù: porzioni di pane, anche piccolissime, molliche, frammenti non potevano essere gettati via. In genere venivano riutilizzati come mangime per gli animali. Si credeva che, dopo la morte, lo spirito di chi avesse gettato via pezzi di pane sarebbe stato costretto a raccoglierli in canestri senza fondo.
Quando si poggiava il pane sulla tavola da pranzo, o nel mobile destinato alla sua custodia, era vietato poggiarlo “all’incontrario”, ossia disponendo verso l’alto la parte che aveva poggiato sul piano di cottura. Infrangere questo tabù era considerato colpa grave foriera di disgrazie.
Quando per caso un pezzo di pane cadeva al suolo, lo si raccoglieva e, prima di riporlo o di usarlo, lo si baciava.
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